Don Marco Ceccarelli Commento IV Quaresima “A”

IV Quaresima “A” – 22 Marzo 2020
I lettura: 1Sam 16,1.4.6-7.10-13
II lettura: Ef 5,8-14
Vangelo: Gv 9,1-41

  • Testi di riferimento: 1Re 2,4; 3,6; 20,3; Sal 26,1-3; 36,10; 43,3; Pr 26,12; Is 2,5; 6,10; 38,3; 42,19;
    Mt 4,16; 5,14; 12,30; 13,13; 15,14; Lc 2,34; 12,51; Gv 1,4-9; 3,19-21; 5,22.27; 8,12; 11,9-10;
    12,35-36.39-40.46-48; At 26,18; Rm 2,19-21; 1Cor 1,23-24; 2Cor 2,15; Gal 2,14; 6,10; Fil 2,15;
    1Ts 5,4-5; 1Pt 2,7-8; 1Gv 1,6-7; 2Gv 4; 3Gv 3-4
  1. La prima lettura. Può sembrare che non c’entri nulla con le altre letture e con la tematica di questa domenica che è quella della luce. In realtà tutto l’episodio della scelta di Davide e della sua unzione ruota intorno al verbo “vedere” (che appare sette volte). Il Signore “vede” tra i figli di Iesse
    un re (v. 1). Samuele “vede” Eliab, il primogenito e pensa sia lui (v. 6). Però il Signore gli dice di
    non “guardare” al suo aspetto (letteralmente “a come si fa vedere”), perché Lui non “vede” come
    “vedono” gli uomini (v. 7). Poi, quando tocca a Davide, Samuele si accorge che egli è bello “alla
    vista” (v. 12). Dunque, il profeta deve fare un “cammino” per imparare a vedere le cose come le vede Dio e non alla maniera umana. E quando finalmente è giunto a vederci bene si accorge che effettivamente le cose di Dio sono più belle, che Lui in realtà ci vede meglio. Quando accettiamo di vedere le cose alla maniera di Dio, cioè alla luce della fede, anche la nostra ragione comprende meglio
    le cose. La ragione ci vede meglio alla luce della fede.
  2. La luce della vita. Come il simbolismo dell’acqua, anche quello della luce – sottolineato pure dalla seconda lettura – ha a che fare la vita. Questa per lo meno è la prospettiva dell’evangelista, se è
    vero che in Gv 1,4 si afferma che «la vita era la luce degli uomini». Dunque il gioco luce-tenebre
    presente nel discorso di Gesù e nel simbolismo del miracolo del cieco nato vuole indicare dove si
    trova la vera luce e quindi la vera vita. Anche in questo caso, per avere accesso alla vera luce occorre arrivare alla fede in Cristo, non senza aver fatto un cammino per riconoscere le proprie tenebre e
    accogliere la luce, come era stato anche per la samaritana. Chi segue Cristo avrà questa luce della
    vita, perché lui stesso è la luce (Gv 8,12). Gesù è venuto nel mondo come luce affinché chi crede in
    lui non rimanga nelle tenebre (Gv 12,46).
  3. La luce della verità.
  • La luce e le tenebre sono metafore per verità e menzogna. La luce è la vita degli uomini perché la
    verità è essenziale per vivere. Se non conosco i limiti della natura umana mi espongo a pericoli di
    morte. Se non conosco la differenza fra ciò che è commestibile e ciò che è veleno mi suicido. La
    negazione della verità comporta perciò un’autodistruzione. E la verità fondamentale che sta alla base di ogni altra verità è che la creatura non è Dio. Il peccato primordiale è la negazione di questa verità. Uscire dalle tenebre significa prendere atto che c’è un Creatore sopra di me e che perciò non
    sono io a fabbricare la verità. Gesù è colui che ci rivela il Padre. Per questo la vita eterna è che conoscano l’unico vero Dio e colui che Egli ha inviato (17,3). La fede in Cristo come il Messia, il rivelatore, il figlio di Dio, è perciò l’elemento imprescindibile per avere la vita (Gv 20,31).
  • «Camminate come figli della luce» (seconda lettura). Camminare nella luce equivale a camminare
    nella verità (vedi testi di riferimento). Come un vedente è in grado di muoversi con facilità rispetto
    ad un cieco, così chi conosce la verità può agire con sicurezza. La verità non ha a che fare soltanto
    con la conoscenza intellettuale; ha una finalità estremamente pratica. Se non vedo dove metto i piedi rischio di ammazzarmi. Si è vedenti, si è nella verità, nel momento in cui si agisce in conformità
    alla verità, così come si distingue un vedente da un non vedente da come si muove. Vederci fa la
    differenza. Quello che fa la differenza fra fare la scelta giusta o la scelta sbagliata, fra vivere una
    prova, una croce, schiacciati o viverla nella pace, è la luce della fede.
  1. Il Vangelo.
  • «Tutti siamo nati ciechi da Adamo» (sant’Agostino). La caratteristica del personaggio del brano di
    Vangelo odierno, cieco dalla nascita, diventa un simbolo della condizione comune a tutti gli uomini.
    Siamo tutti “ciechi” dalla nascita perché dalla nascita abbiamo ereditato il peccato di Adamo (cfr.
    Gen 8,21). Non siamo perciò in grado di vedere la realtà così come la vede Dio, secondo verità. C’è
    una tendenza nell’uomo, a causa del peccato, a preferire la menzogna alla verità; molto spesso siamo più inclini a credere alle balle che alle cose serie. Se ci si rendesse conto di questo, si sarebbe
    già nel giusto atteggiamento per accogliere la luce. Il problema sta invece nell’ostinata certezza di
    vederci bene (v. 41). Il cammino della fede in Cristo deve partire perciò dalla presa di coscienza
    della propria condizione di cecità. Il “procedimento” fango + lavacro ha questo scopo; sta a dire che
    è Cristo colui che ci libera dalla cecità. Il nome della piscina, “Inviato”, che l’evangelista si preoccupa di sottolineare, indica che Gesù è l’inviato del Padre (8,42) per farci uscire dalle tenebre
    dell’ignoranza. Per tre volte nel racconto il cieco afferma la sua ignoranza (vv. 12.25.36), ma dopo
    professerà la fede in Gesù. Il passaggio dalle tenebre alla luce consiste dunque nel passaggio dalla
    non conoscenza alla conoscenza di Cristo. È questo che produce una vita nuova. Il cieco del racconto è in un certo senso simile alla samaritana della domenica precedente, che con «il suo andare e
    venire dal pozzo … esprime un vivere ripetitivo e rassegnato» (Benedetto XVI). Così è anche la vita del cieco nato. Ma l’incontro con Cristo gli permette di uscire da questa vita ripetitiva e rassegnata. Anche per lui la fede in Cristo segna l’inizio di una vita nuova.
  • Di contro abbiamo invece i farisei i quali affermano per tre volte la loro conoscenza (vv.
    16.24.29), ma non sono in grado di riconoscerlo. Per questo l’affermazione finale: siccome dicono
    di vederci, il loro peccato e quindi la loro cecità rimane. La presunta conoscenza impedisce ad essi
    di accogliere la luce della vita. L’ironia dell’episodio sta proprio nel fatto che il cieco è colui che
    raggiunge la vista, mentre i vedenti rimangono ciechi. Per avere la luce della verità occorre riconoscere la propria ignoranza. Per questo davanti a Gesù che è la luce si opera un “verdetto”.
  • Gesù è venuto nel mondo “per un verdetto” (v. 39). L’espressione eis krima non significa “per
    giudicare” (come traduce la versione CEI, anche quella nuova; vedi contrasto con Gv 3,17; 12,47).
    Il termine indica il giudizio, non come krisis, ma nel suo aspetto risultativo, cioè in quanto “verdetto”, “sentenza” di un giudizio. Per questo spesso significa “condanna” (Lc 23,40; 24,20; 1Cor
    11,34; 1Tm 3,6). Ovviamente una sentenza può concludersi anche con una assoluzione, con una liberazione. Il krima è soprattutto quello di Dio, in particolare quello che Egli farà alla fine dei tempi
    (Lc 20,47; At 24,25; Rm 2,2.3; Eb 6,2; 1Pt 4,17). Con questa espressione Gesù indica dunque che
    davanti a lui già si compie un verdetto, già gli uomini si dividono in innocenti e colpevoli. E tale
    verdetto, che rivela la verità delle cose, è già una manifestazione della luce di Cristo. Con la presenza di Cristo sulla terra si anticipa il krima futuro di Dio (1Pt 4,17) perché gli uomini possano accogliere la salvezza prima che sia troppo tardi. Cristo stesso si è sottoposto al krima perché gli uomini
    riconoscano il krima che incombe su di loro e chiedano misericordia (Lc 23,40-42).
  • La notte (v. 4). L’assenza di luce impedisce di operare. Gesù ha un tempo “diurno” in cui può operare (Gv 11,9-10) e in questo tempo deve compiere le opere che il Padre gli ha dato di compiere.
    Ma è anche il tempo in cui, proprio perché è giorno, devono “operare” coloro che gli sono spettatori; e l’opera che sono chiamati a compiere è la fede in Gesù (Gv 6,28-29). Verrà la notte in cui questa opera diventerà impossibile. Ora che la luce è con loro, hanno la possibilità di credere in lui. Ora
    hanno la possibilità di riconoscerlo come l’inviato di Dio. Dal momento in cui Gesù, la luce del
    mondo, partirà dal mondo, godrà della sua luce soltanto chi avrà la fede (Gv 20,29). Quando sarà
    notte (Gv 13,30) né Cristo potrà più operare, né gli altri potranno più credere in lui. Senza Cristo,
    senza la luce, nemmeno i suoi discepoli potranno ottenere dei risultati (Gv 21,3). Quello che la
    Chiesa opererà dopo il mistero pasquale sarà grazie alla fede in Cristo. È la fede lo scopo dei “segni”, delle opere che Gesù compie, affinché gli uomini credendo in lui abbiano la vita (Gv 20,31).

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