Santissimo Corpo e Sangue di Cristo (Anno A) (11/06/2023) Vangelo Gv 6, 51-58
Il vangelo di oggi riempie un vuoto. L’evangelista Giovanni non aveva raccontato l’istituzione dell’eucaristia nell’ultima cena e l’ha come sostituita con la lavanda dei piedi.
Nella stagione in cui per tanti Dio non è neppure più osteggiato ma ignorato o guardato con indifferenza succede ancora che un piccolo gruppo di cristiani come noi, come voi, si ritrovi ogni domenica a celebrare la cena del Signore e a mangiare insieme qualcosa di infinitamente piccolo che chiamiamo il corpo di Cristo. Ma cosa voleva dire Gesù dicendo il pane è la mia carne? Voleva richiamare i suoi alla concretezza del divino. Gli oppositori di Gesù erano molto lontani dall’idea che il divino passasse attraverso il corpo di un uomo nelle cui vene scorreva sangue vivo. Prima di Gesù il divino veniva evocato nei segni grandiosi e prodigiosi come la manna nel deserto. Ora si trovano davanti a colui che dice di essere di più, di essere lui il pane disceso dal cielo.
Uno che viene da Nazaret un villaggio da nulla, un uomo con una storia di quotidiana umanità. Uno che afferma che il divino passa attraverso il suo corpo, attraverso la debolezza e la povertà della sua vita. Uno che non fa sfoggio di se stesso ma attraverso una vita che si fa dono fino a morire sulla croce.
Ebbene proprio questa vita donata è raccontata nell’eucaristia. Raccontata nello scandalo meraviglioso della concretezza e della piccolezza. Dio che si fa pane. Per noi malati di chissà quale illusione di grandiosità , ecco invece il pane! E dentro il pane c’è una storia di chicchi di grano triturati da macina da mulino e nel vino c’è una storia di acini d’uva spremuti dal torchio. A volte penso quanto sia stato grande, geniale e commovente Gesù nel consegnarsi nel segno del pane e del vino. Come se non ci fosse nient’altro di più chiaro per parlare della sua vita e della sua morte.
E noi siamo chiamati ogni domenica a fare così per fare memoria di lui. Ed è talmente vero che ad ogni celebrazione riascoltiamo quelle parole dette non per pochi ma per tutti. Dette per tutti, donne e uomini, di ogni condizione sociale e dello spirito. A tutti: “Prendete e mangiate”. Ha detto: “Prendete”. E tu prendi, e dici: “Amen”. Dici: “Sei pane per me, Signore! Sei stato e sei pane per tutti”. Guardiamo il pane consacrato e adoriamo Dio!
Noi lo inseguiamo nei segni della gloria e dell’onnipotenza! Invece un pezzo di pane è una piccolezza che grida silenziosamente amore. A volte, provo stupore e commozione nel vedere come la gente, la gente comune, la gente come noi che, al momento della comunione, offre la mano e accoglie sul palmo il pane del corpo dl Signore.
E leggo in quelle mani, per come si offrono, le piccole mani dei bambini, quelle screpolate e tremanti degli anziani, quelle rugose degli operai e dei contadini, quelle morbide delle nonne, e quelle profumate delle giovani madri, quelle frettolose dei giovani, il segno di uno stupore, di una tenerezza infinita per il mistero che arde ed è nascosto nel pane.
Il Signore si è fatto pane per tutti. In questo pane è scolpita la sapienza del vivere che ci viene ricordata ogni volta che lo riceviamo nelle mani. Riceviamo la verità e la saggezza del vivere che sta nel farsi pane e farsi pane per gli altri.
L’eucarestia è il contrario dell’isolamento e della solitudine. Cena vuol dire mangiare insieme, non ognuno per conto suo o al suo tavolo; vuol dire festa dei volti intorno alla mensa del Signore. Isolarsi e isolare sarebbe lo stravolgimento dell’eucaristia, del pane corpo di Cristo. Il vescovo che mi ha ordinato prete mi ha detto quel giorno: “Fai come Dio, diventa uomo. Fai come Gesù, diventa pane. Diventa anche tu pane”. Le parole almeno non le ho più dimenticate.
