Don Marco Ceccarelli Omelia XXIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)

I lettura: Ez 33,7-9
II lettura: Rm 13,8-10
Vangelo: Mt 18,15-20

  • Testi di riferimento: Lv 19,17; Dt 13,6; 19,15; 1Re 22,14; Is 62,6; Ger 1,17-18; 6,17; 20,8-9;
    23,28; 26,2; Ez 2,7-8; 3,17-19; 33,2-11; Os 9,8; Mt 5,46-47; 7,1-5; 16,18-19; Lc 17,3-4; 18,13-14;
    Gv 8,17; 20,22-23; At 4,18-20; 5,20.29; 20,26-31; Rm 16,17; 1Cor 1,10; 5,1-5.9-13; 6,6-8; 9,19-22;
    2Cor 13,1; Gal 6,1; 2Ts 3,6.14-15; 1Tm 1,20; 4,16; 5,19; Tt 3,10; Eb 10,28-29; Gc 5,19-20; 2Gv 10
  1. Prima lettura.
  • La sentinella di Dio. Il brano della prima lettura odierna presenta il senso della chiamata di Ezechiele, il cuore della sua missione. Dio gli aveva detto di essere un profeta per la gente del suo popolo, sia che essi avessero ascoltato le sue parole o no (2,7). Ora si specifica in cosa consista questa
    missione: nell’essere per Israele una sentinella che avverte del pericolo in cui si incorre attraverso
    certi comportamenti. Egli deve avvertire la casa d’Israele per mezzo delle parole che ha ascoltato da
    Dio. Il verbo “avvertire”, che viene usato tre volte (vv.7.8.9), in ebraico è zahar e significa letteralmente “fare luce”. Dio, “che non vuole la morte del peccatore”, vuole “illuminare” chi si trova in
    una situazione di peccato affinché si converta e viva (Ez 33,11). Il peccato porta alla morte, e Dio
    vuole salvare gli uomini; vuole avvisarli, vuole illuminarli perché si salvino. Ma non lo fa senza il
    profeta. Costui è determinante; ha una seria responsabilità, tanto che Dio gli chiederà conto della vita di quelle persone che egli deve avvisare. Fra Dio e la salvezza degli uomini c’è la figura chiave
    del profeta-sentinella. Senza di lui non può arrivare la “luce” ai peccatori perché si convertano e vivano. Perciò egli è responsabile davanti a Dio della loro salvezza: «Del suo sangue chiederò conto a
    te!» (v. 8).
  • La libertà. E tuttavia le persone rimangono sempre libere. Dio non forza nessuno. Dio vuole che
    tutti gli uomini si salvino e li illumina su ciò che permette di vivere o che conduce alla morte; ma li
    lascia liberi di scegliere. Il profeta non è un poliziotto che arresta e mette in galera chi si comporta
    male. Non possiede e non può usare mezzi coercitivi. La sua unica forza è la parola che comunica,
    che egli sa essere Parola di Dio. Il profeta manifesta la premura e allo stesso tempo il totale rispetto
    della libertà che Dio ha verso gli uomini. Egli è soltanto una sentinella che vigila per essere pronta
    da una parte ad ascoltare ciò che Dio vuole dire al suo popolo, e dall’altra a riferire fedelmente tale
    parola.
  1. Il vangelo.
  • Il breve brano odierno di Vangelo va contestualizzato. Siamo nel discorso di Gesù cosiddetto “ecclesiale” in cui si parla di questioni “interne” alla chiesa. Prima del nostro brano abbiamo la parabola della pecora smarrita (verbo ripetuto tre volte nei vv. 12-13) che deve essere recuperata perché
    “la volontà del Padre vostro celeste è che non si perda neanche uno». Il discorso sulla correzione del
    fratello si lega dunque a questo tema del “recupero”, ma anche della “protezione” della chiesa stessa
    dagli scandali dei suoi membri. Quanto qui Gesù esorta a fare si può capire dunque a partire da un
    forte senso di appartenenza alla comunità cristiana; senso di appartenenza al quale – purtroppo –
    non siamo sempre molto sensibili.
  • La correzione del fratello (v. 15). Questa tematica della correzione è quanto mai importante, tanto
    più perché non sembra essere una delle virtù più praticate. Una prima domanda: chi è questo fratello
    che deve essere rimproverato quando pecca? Si tratta di un cristiano, di uno che condivide la nostra
    stessa fede e soprattutto la nostra stessa comunità ecclesiale. Questo lo si deduce dal v. 17 in cui appunto si chiama in causa la “Chiesa”, cioè l’assemblea dei credenti. I cristiani si chiamavano “fratelli” fra di loro, sull’esempio dei Giudei che chiamavano fratelli i loro correligionari. Una seconda
    domanda: chi deve rimproverare questo fratello? Non solamente chi ha subìto un torto da lui, anche
    se l’espressione «un peccato contro di te» può far pensare a questo. In realtà il senso è diverso. Qui
    si sta parlando di chi vede qualcuno che appartiene alla comunità cristiana commettere un peccato e
    lo ammonisce affinché si “converta dalla sua via”, come dice la prima lettura. È la sollecitudine per
    il bene di un fratello nella fede che sbaglia, e anche per il bene dell’intera comunità che viene danneggiata dal fratello che pecca. È il desiderio di recuperare la pecora perduta. Non si sta perciò qui
    parlando di mancanze di poco rilievo (e.g. gesti di maleducazione), ma di situazioni di peccato grave, che “contaminano” seriamente la comunità e che, eventualmente, causano la “scomunica”, l’allontanamento del fratello.
  • A questo punto è facile pensare: ma questo tipo di correzione quando avviene? Quando si dà il caso di qualcuno che viene ripreso, corretto, rimproverato, perché sta facendo qualcosa di sbagliato?
    Può darsi che a volte un prete si trovi a fare questo. Ma che un fedele cristiano, un laico, uno che sta
    nell’assemblea, quando mai si azzarda ad avvicinarsi ad un altro e dirgli che sta sbagliando? Eppure
    così dice Cristo. Ovviamente il fine di questo è l’amore per il fratello: «se ti ascolterà avrai guadagnato il tuo fratello» (v.15). Se lo sentissimo veramente nostro fratello forse non lo faremmo? Forse
    non gli diremmo qualcosa per tentare di farlo uscire da una situazione di peccato che gli sta rovinando la vita? Allora perché non lo si fa verso un cristiano che condivide la nostra assemblea, il nostro battesimo, la nostra eucarestia? Forse perché non crediamo veramente che il peccato sia qualcosa che rovina la vita? Eppure Gesù dice che con la correzione possiamo salvare (“guadagnare”)
    una persona. O forse perché abbiamo una concezione della privacy che ci porta a disinteressarsi degli altri e volere che gli altri si disinteressino di noi? E invece il brano del Vangelo odierno ci dice
    che nella Chiesa siamo una comunità. Dio ascolta la comunità (v. 19); Cristo sta dove c’è la comunità (v. 20).
  • In una concezione di cristianesimo molto individualista, l’altro o gli altri funzionano al più come
    un elemento coreografico, se non addirittura di peso. Ci sono io e Dio; gli altri sono un optional, che
    possono esserci o non esserci. E a volte questo secondo caso sarebbe preferibile, per evitare fastidi.
    Ma gli altri non sono un optional; sono membra come me dell’unico corpo di Cristo. Allora la correzione del fratello che pecca è qualcosa di estremamente importante in funzione della sua salvezza
    (Gc 5,19-20: «Chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore lo salverà dalla morte e coprirà una
    moltitudine di peccati») e dell’intero corpo di Cristo di cui anch’io faccio parte. Ma se ciò è vero
    per il fratello è ovviamente vero anche per ciascuno di noi. Un nostro fratello di fede ha il diritto e il
    dovere di correggerci nel caso stiamo percorrendo una strada sbagliata. Perché non esiste un “mio”
    cristianesimo, una “mia” chiesa, ma la chiesa di Cristo della quale tutti siamo membra. Ciascuno
    dovrebbe innanzitutto essere consapevole che potrebbe essere corretto. Anche ciascuno di noi può e
    deve venire corretto, se necessario; ciascuno di noi deve accettare la correzione.
  • “Sia per te come un pagano e un pubblicano” (v. 17). Il peccato è qualcosa che danneggia l’intera
    comunità. Anche questo non è facile da capire oggigiorno in cui si pensa che nella sfera privata
    siamo autorizzati a fare qualsiasi cosa. In realtà il peccato di un singolo ricade sulla Chiesa e sulla
    sua missione che è quella di far risplendere la luce di Cristo. Per questo nel momento in cui un
    membro della Chiesa non accetta di lasciare il peccato deve essere messo fuori dalla comunità, come se fosse uno che non è mai pervenuto alla fede o che l’abbia abbandonata. I pagani e i pubblicani erano categorie con cui il giudeo osservante non intratteneva rapporti di comunione. Chi pecca
    gravemente rompe la comunione con Dio e con i fratelli, e questo – dice Gesù – deve essere messo
    in luce; perché “tutto ciò che viene manifestato è luce” (Ef 5,14). Non si può far finta che va tutto
    bene quando bene non va. L’esclusione dalla comunione (= scomunica) non è una forma di condanna divina anticipata su questa terra, ma un modo di aiutare il fratello a pentirsi e di rendere chiaro
    che quel suo comportamento non appartiene all’agire di Cristo. Così san Paolo afferma riguardo ad
    un fratello che stava in peccato grave che «questo tale sia consegnato a satana per la rovina della
    sua carne, affinché lo spirito si salvi nel giorno del Signore» (1Cor 5,5). Allora la Chiesa ha l’autorità – e anche il dovere – di legare e sciogliere (v. 18), di mettere in chiaro ciò che attiene alla salvezza o è fonte di perdizione (vedi omelia di due domeniche fa). Ma lo scopo è quello di evitare di
    essere separati dalla chiesa e quindi da Cristo. E questo dovere di preoccuparsi della salvezza del
    singolo, e quindi dell’intera comunità, spetta anche ad ogni singolo cristiano.
  1. La prima lettura e il Vangelo mettono bene in chiaro che nel popolo di Dio non possiamo tacere
    sul male che si compie intorno a noi, specialmente se esso è perpetrato da un fratello nella fede. E
    certamente non per paternalismo o senso di superiorità, ma per quell’“obbligo” che ci viene
    dall’amare il prossimo, nel pieno rispetto della carità vicendevole (seconda lettura), che implica il
    non considerarsi mai superiori agli altri (Fil 2,3). Occorre correggerci gli uni gli altri, sapendo che
    chi tace davanti al male diventa in qualche modo anche lui responsabile di quel male, diventa anche
    lui, in qualche modo, complice.

Fonte:http://www.donmarcoceccarelli.it/