XXIX Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (22/10/2023)
Dal Vangelo secondo Matteo
Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio.
In quel tempo, 15i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come cogliere in fallo Gesù nei suoi
discorsi.
16 Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero
e insegni a via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno.
17 Dunque, dì a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?».
18 Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? 19 Mostratemi
la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. 20 Egli domandò loro: «Questa immagine e
l’iscrizione di chi sono?». 21 Gli risposero: «Di Cesare».
Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio!».
Collocazione del brano
Matteo continua a raccontarci cosa sia avvenuto nell’ultima settimana che Gesù ha trascorso su questa
terra. Dopo le tre parabole che egli aveva dedicato ai capi dei sacerdoti e agli anziani, vi sono tre dispute
architettate per cogliere in fallo Gesù. La prima, quella di questa domenica (Mt 22,15-21) è escogitata dai
farisei in collaborazione con gli erodiani, e riguarda il rapporto del credente con il potere civile (in quel caso
addirittura il potere straniero che occupava Israele). La seconda, che la liturgia salta (Mt 22,23-33), riguarda
la risurrezione dei morti ed è provocata dai sadducei. La terza vede un’altra volta i farisei salire sul ring per
chiedere a Gesù quale sia il precetto più grande di tutta la Legge (Mt 22,34-40) e se ne parlerà domenica
prossima.
Lectio
15Allora i farisei, andati, tennero consiglio sul modo di prenderlo al laccio con una parola.
Dopo i capi dei sacerdoti e gli anziani vengono i farisei a sfidare Gesù, per cercare di coglierlo in fallo.
L’espressione “tennero consiglio” (symboùlion) è il termine tecnico per indicare la convocazione del
sinedrio, convocato dai sommi sacerdoti, di cui si parlerà più tardi nel corso del racconto della passione (Mt
27,1.7; 28,12). Matteo lo anticipa qui, per ricordarci che la condanna di Gesù era stata architettata già da
tempo. L’espressione “prendere al laccio con una parola” è un semitismo molto espressivo che ci fa
comprendere come possa bastare una parola sola per mettere nei guai una persona. Matteo usa questo
termine solo in questa occasione. E’ inoltre evidente l’atteggiamento ostile dei farisei nei
confronti di Gesù.
16E mandano a lui i loro discepoli con gli erodiani a dire:
I capi dei farisei non vanno direttamente da Gesù (ci andranno per la terza disputa, cf. Mt 22,34-40).
Mandano i loro discepoli. Non solo: c’è anche la presenza degli erodiani. Questa si spiega con la natura
della disputa. Erode era un collaborazionista del potere dei romani su Israele. Qualora Gesù avesse
espresso delle parole di disapprovazione nei confronti dei romani e del loro pretendere delle imposte, essi
sarebbero stati i primi a denunciarlo presso gli occupanti come un sovversivo.
Erodiani e farisei erano nemici: gli uni collaboravano con il potere dei romani, gli altri lo consideravano un
castigo di Dio. Però quando si tratta di mettere in difficoltà Gesù si mettono d’accordo!
«Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni con verità la via di Dio, e non ti curi di nessuno,
perché non guardi in faccia agli uomini.
Queste parole di introduzione sono fin troppo adulatorie, sembrano quasi una provocazione e di fatto
ottengono da parte di Gesù delle parole di biasimo (“ipocriti”). Il dire “non guardi in faccia agli uomini”
potrebbe sembrare un’istigazione a sfidare il potere di Cesare.
2
17Di’ dunque a noi, che te ne pare? E’ lecito o no dare il tributo a Cesare?».
Il tributo di cui i farisei parlano era la tassa pro capite imposta dai romani dopo l’occupazione della
Palestina avvenuta nel 6 a.C. (il cui nome tecnico era census). Questo veniva richiesto a tutti gli abitanti
della Giudea, Samaria e Idumea (uomini, donne, schiavi) dai dodici fino ai sessantacinque anni. Il Cesare di
cui si parla è Tiberio Cesare, imperatore di Roma dal 14 al 37 d.C. Il tributo era di un denaro d’argento a
testa, ossia la paga quotidiana di un bracciante. Il pagamento di questo tributo era una condizione
essenziale per poter vivere in pace come sudditi dell’impero romano ed esercitare i diritti derivanti da
questo stato.
18Ma Gesù, conoscendo la loro malvagità, disse: «Perché mi tentate, ipocriti?
Non c’è bisogno di avere la conoscenza del cuore umano che aveva Gesù per capire che quel lungo
preambolo e la domanda che gli veniva posta non erano altro che tentativi cattivi di incastrarlo. Gesù sa
bene che qualunque sua risposta diretta lo avrebbe messo in una posizione difficile. Se avesse detto che il
tributo era lecito avrebbe avuto contro di sé gli zeloti e tutti coloro che mal sopportavano l’occupazione
romana. Se avesse detto di no, gli erodiani lo avrebbero denunciato ai romani. Quindi è legittima la sua
protesta: perché mi tentate, perché mi mettete alla prova? Essi sono davvero dei falsi (ipocriti).
19Mostratemi la moneta del tributo». Ora, essi gli presentarono un denaro.
Ma Gesù, risponde alla domanda in modo indiretto. Sposta l’attenzione sul fatto oggettivo, in se stesso.
Esisteva una moneta speciale, coniata dai romani, per pagare questo tributo e il fatto che gli interlocutori di
Gesù gliela possano mostrare subito significava che vi era una certa facilità nel reperire e maneggiare tale
tipo di denaro. Secondo un’interpretazione stretta del secondo comandamento (Es 20,4), una moneta
recante un’immagine e l’iscrizione che divinizzava l’imperatore dovevano considerarsi idolatriche. Eppure
anche i farisei ne facevano uso in modo piuttosto disinvolto.
20E dice loro: «Di chi (è) questa immagine e l’iscrizione?».
La moneta portava l’immagine dell’imperatore Tiberio, e l’iscrizione che diceva Tiberio Cesare, augusto
figlio del divino Augusto, sommo sacerdote. Dall’altro lato vi era sua madre Livia, raffigurata come dea della
pace.
21Gli dicono: «Di Cesare». Allora dice loro: «Rendete dunque a Cesare quello (che è) di Cesare, e a Dio
quello (che è) di Dio!».
Gesù mette la sua risposta su di un piano di appartenenza. Se la moneta riporta l’immagine di Cesare è da
dare a Cesare. Tutti i vantaggi che il popolo di Israele godeva grazie alla presenza dei romani sul suo
territorio dovevano essere riconosciuti e ripagati con questo tributo. Ma il potere di Cesare per quanto
grande non poteva essere assoluto. Vi è anche una “moneta” che porta l’immagine di Dio, cioè l’uomo (Gn
1,26). Quindi ciò che porta l’immagine di Dio va reso a Dio, deve dedicarsi a Lui.
Durante la storia cristiana si ha avuto la tendenza a usare questo testo come base della dottrina dei
rapporti tra «Chiesa e Stato», giungendo spesso alla conclusione che si tratta di due sfere separate.
Matteo per conto suo era più interessato a mostrare la capacità di Gesù di evitare i tranelli tesigli dai suoi
avversari e alla sua esortazione a prestare altrettanta (e anche maggiore) attenzione a “quello che è di Dio”
rispetto a “quello che è di Cesare”.
Meditiamo
- Mi capita mai di cercare di mettere Dio con le spalle al muro davanti alle mie richieste?
- Quale è il mio atteggiamento verso il potere politico?
- In quale modo sono chiamato a realizzare il “dare a Dio quello che è di Dio”?
Preghiamo
(Colletta della 29a Domenica del Tempo Ordinario, Anno A)
O Padre, a te obbedisce ogni creatura nel misterioso intrecciarsi delle libere volontà degli uomini; fa’ che
nessuno di noi abusi del suo potere, ma ogni autorità serva al bene di tutti, secondo lo Spirito e la parola
del tuo Figlio, e l’umanità intera riconosca te solo come unico Dio. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Fonte:https://www.matrisdomini.org/
