VI Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) (11/02/2024)
La pericope evangelica che la liturgia di questa domenica, l’ultima prima che abbia inizio il tempo della Quaresima, ci presenta potrebbe essere divisa in due parti, facilmente riconoscibili. La prima formata dai versetti 40-42 riportano il segno prodigioso compiuto di Gesù di guarigione del lebbroso, mentre la seconda abbraccia i versetti 43-45 e concerne quanto segue a questo evento.
La guarigione di questo lebbroso è certamente molto bella nel suo racconto e ricca di significato e meriterebbe una riflessione molto approfondita a sé stante: questo gesto scandaloso di Gesù (lo si legga in riferimento alle norme del Levitico riportate nella prima lettura) mostra il vero volto del Padre, quello di un Signore che ha cura di tutti e di ciascuno, mostra come il Verbo di Dio si sia fatto carne per sanare quella distanza venutasi a creare tra il Creatore e le sue creature a seguito del peccato, come Dio stesso si faccia prossimo e senta compassione per l’umanità piegata dal dolore, portando uno sguardo di dolce paternità e di concreta fratellanza.
Tuttavia ciò che maggiormente ci colpisce di questa manciata di versetti è la strana fine del racconto, l’inaspettata reazione di Gesù che addirittura ammonisce “severamente” il lebbroso risanato di non fare ciò che tutti avremmo spontaneamente fatto in quella situazione, ovvero rendere tutti partecipi della nostra gioia. Il Cristo sembra infatti non tanto volere nascondere la guarigione, quanto piuttosto la sua paternità riguarda a quel gesto. Egli non vuole che si sappia che è stato lui a guarire quell’uomo dal suo male.
Quest’insistenza di Gesù nell’ordinare di non parlare a nessuno dei suoi gesti, tipica del racconto di Marco, è denominata dagli studiosi come segreto marciano: secondo questo primo Vangelo infatti l’identità di Gesù come Cristo, come il Figlio di Dio, non avviene tanto per mezzo dei fatti miracolosi, bensì solamente in due punti: quando Pietro confesserà: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (8, 27-30) e quando il centurione, guardando attonito il Crocifisso ammetterà: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio” (15, 39). L’evangelista Marco attraverso il suo segreto non dà vita solo ad una tecnica narrativa per tenere il lettore incollato alle sue pagine sino alla fine del racconto, bensì rivela una profonda conoscenza del mistero di Cristo. Quest’ultimo infatti in tutta la sua vita si mostra attentissimo alla relazione personale che si instaura tra Lui e chi viene guarito, c’è una concatenazione imprescindibile perché la guarigione del male avvenga: riconoscere personalmente che solo Lui può sanare quel male, che solo Gesù è il Signore che può ridare vita lì dove regna la morte, e che ciò avviene in una relazione personale.
Cristo non è una mago, ma nemmeno un concetto o un insieme di valori. Egli è una persona, una persone mendicante di relazioni con i suoi figli. E come tale, anche la Fede che da Lui scaturisce non può essere solo una dottrina, un sapere teorico o valoriale che si trasmette di generazione in generazione. No! La Fede è un’altra cosa: essa nasce e si mantiene con un rapporto vivo, fedele ed appassionato con Dio. Che si ravviva giorno dopo giorno, come le coppie di sposi ben sanno.
Sarebbe interessante nella settimana che prepara o segue questo Vangelo, chiedersi come, nella nostra vita di cristiani e di membri della comunità, questo fatto emerga. Come presentiamo il Cristo? Come lo viviamo? Egli è solo un insieme di buoni sentimenti e di nobili valori o e veramente Qualcuno che parla alle nostre vite, che le plasma e che noi riconosciamo di amare (o almeno riconosciamo di provarci)?
Che spazio veramente Gli lasciamo perché agisca nelle vite nostre e degli altri membri delle comunità, e quanto spazio invece riempiamo con le nostre umane parole?
Fonte:https://www.pievescandiano.it/
