Don Luciano Labanca “Il più bello tra i figli dell’uomo”

IV Domenica di Pasqua (Anno B)  (21/04/2024) Liturgia: Atti 2,14-36-41; 1Pietro 2,20-25; Giovanni 10,1-10

La quarta domenica di Pasqua, in cui la Chiesa celebra la giornata mondiale di preghiera per le vocazioni, prevede sempre la lettura di un passo del capitolo 10 del Vangelo di Giovanni, in cui Gesù si rivela attraverso l’allegoria del pastore. Non è un’immagine nuova nel panorama biblico, ben nota già infatti nel libro dei Salmi (cfr. Sal 23) e in Ezechiele (cfr. Ez 34, 24-31). Essa assume un senso più profondo dopo il passaggio pasquale di Gesù: è soltanto con il dono della sua vita e la sua Resurrezione che Egli mostra in pienezza l’amore totalizzante verso il suo popolo, redento dal suo sangue e radunato nell’unità della Chiesa. Esaminando il testo propostoci, vediamo come Gesù riveli se stesso utilizzando un aggettivo qualificativo, accanto all’immagine del pastore: Io sono il pastore, quello bello (egó eimi o poimén o kalós). L’aggettivo “kalós” indica la bellezza, non da intendersi in senso estetico, ma totalizzante: il vero, il buono, il giusto, quindi il bello. Per questa ragione anche la traduzione italiana che definisce Gesù come “buon pastore”, funziona perfettamente. Gesù possiede una bellezza totalizzante, perché in Lui si manifesta la pienezza dell’amore, quindi della verità, della giustizia e della bontà. È vero, donando la sua vita sulla croce “egli non ha apparenza, né bellezza per attirare i nostri sguardi” (Is 53,2), ma il dono totale di sé lo rende “il più bello tra i figli dell’uomo” (Sal 44,3). La bellezza di Cristo, dunque, non ha niente a che vedere con la vana attrazione fisica, che come il fiore del campo è destinata a sfiorire, ma esprime la bontà e la verità dell’amore donato. Egli dà la sua vita per le pecore, con generosità, senza riserve. Questa bellezza supera ogni qualificazione superficiale ed esteriore, perché emerge dalla parte più profonda del suo Essere umano-divino. Non c’è niente di utilitaristico in lui, come avviene nel mercenario, che non è pastore. Nel mestierante, pagato per occuparsi delle pecore, c’è sfruttamento. A lui in realtà non interessa nulla di loro, ma vuole soltanto servirsene.  In lui c’è solo la bruttezza dell’egoismo, dei secondi fini e del proprio interesse. La bellezza del pastore, invece, attrae le sue pecore, l’umanità di ogni razza, lingua, popolo e nazione, perché esse sentono l’amore incondizionato, che niente e nessuno può donare al di fuori del Padre e del Figlio. Quando le pecore si lasciano attrarre da questa bellezza e ne fanno esperienza, esse stesse sono rigenerate nell’unità e le forze disgreganti dei lupi rapaci non possono disperderle. Loro stesse, attratte dall’amore incondizionato del pastore, ne riproducono i medesimi tratti, partecipando della sua bellezza e bontà. Contemplando la bellezza totalizzante di questo Pastore, che è Cristo, non ci resta che chiederci: in una società dell’apparenza, segnata da una ricerca ossessiva dell’estetica, siamo ancora in grado di cercare la vera bellezza? Cosa conta di più per noi, la vera bellezza dell’amore gratuito e totalizzante, oppure quella falsa che seduce i nostri sguardi sull’esteriorità e su ciò che è utile o piacevole, ma destinato a sfiorire, come l’erba del campo?

Bene-dire (a cura di don Francesco Diano)

«Ascoltiamo ancora una volta la frase decisiva: «Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e offro la vita per le pecore» (10,14s). In questa frase c’è ancora una seconda interrelazione di cui dobbiamo tenere conto. La conoscenza reciproca tra il Padre e il Figlio si intreccia con la conoscenza reciproca tra il pastore e le pecore. La conoscenza che lega Gesù ai suoi si trova all’interno della sua unione conoscitiva con il Padre. I suoi sono intessuti nel dialogo trinitario; lo vedremo di nuovo riflettendo sulla preghiera sacerdotale di Gesù. Allora potremo capire che la Chiesa e la Trinità sono intrecciate tra loro. Questa compenetrazione di due livelli del conoscere è molto importante per capire la natura della «conoscenza» di cui parla il Vangelo di Giovanni. Applicando tutto al nostro orizzonte di vita, possiamo dire: solo in Dio e solo a partire da Dio si conosce veramente l’uomo. Un conoscersi che limita l’uomo alla dimensione empirica e afferrabile non raggiunge affatto la vera profondità dell’uomo. L’uomo conosce sé stesso soltanto se impara a capirsi partendo da Dio, e conosce l’altro soltanto se scorge in lui il mistero di Dio. Per il pastore al servizio di Gesù ciò significa che egli non deve legare gli uomini a sé, al suo piccolo io. La conoscenza reciproca che lo lega alle «pecore» a lui affidate deve mirare a introdursi a vicenda in Dio, a dirigersi verso di Lui; deve pertanto essere un ritrovarsi nella comunione della conoscenza e dell’amore di Dio. Il pastore al servizio di Gesù deve sempre condurre al di là di sé stesso affinché l’altro trovi tutta la sua libertà; per questo anche egli stesso deve sempre andare al di là di sé stesso verso l’unione con Gesù e con il Dio trinitario. L’Io proprio di Gesù è sempre aperto al Padre, in intima comunione con Lui; Egli non è mai solo, ma esiste nel riceversi e ridonarsi al Padre. «La mia dottrina non è mia», il suo Io è l’Io aperto verso la Trinità. Chi lo conosce «vede» il Padre, entra in questa sua comunione con il Padre. Proprio questo superamento dialogico presente nell’incontro con Gesù ci mostra di nuovo il vero pastore, che non si impossessa di noi, bensì ci conduce verso la libertà del nostro essere portandoci dentro la comunione con Dio e dando Egli stesso la sua vita» (BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Città del Vaticano/Milano, Libreria Editrice Vaticana/Rizzoli, 2007, 326-328).

Preghiera per le vocazioni

Fonte:https://caritasveritatis.blog/