V Domenica di Pasqua (Anno B) (28/04/2024) Liturgia:Atti 6,1-7; 1Pietro 2,4-9; Giovanni 14,1-12
Gesù con una allegoria racconta la nostra vita. Quello che oggi
abbiamo ascoltato, lo sappiamo, è un discorso di addio. Gesù
annuncia una separazione, un allontanamento. Ma tu, Signore, ci dici
che la vera separazione non è questa, non è quella della morte.
Sembra di riascoltare la sfida del Cantico dei Cantici: “più forte della morte è l’amore”. La morte
sembra il massimo della separazione, la più grande delle aggressioni, il più fatale allontanamento.
Ma tu, Gesù, con l’allegoria della vite e dei tralci parli di vicinanza e di intimità, anzi di più: l’uno
nell’altro, i tralci nella vite.
Vite e tralci, questa intimità che è superamento della distanza. L’immagine e l’allegoria per dire
l’amore di Dio per il suo popolo. I profeti e i salmi dicevano che Dio è come il padrone della vigna,
il padrone che si prende cura della sua vigna. Ma c’è ancora una distanza tra il padrone e la vigna,
e qui la distanza è superata: “rimanete in me e io in voi”.
Qualcuno può forse provare disagio di fronte a queste parole, quasi si alludesse a chissà quali
esperienze mistiche e inaccessibili. E invece qui si parla di possibilità, il massimo dell’accessibilità:
“Rimanete in me ed io in voi…” . Non sono parole astratte, sono le parole che usa anche l’amore
umano, parole che sottolineano l’importanza della relazione e la cura della relazione.
Non basta abitare sotto lo stesso tetto, così come non basta celebrare riti nella casa di Dio.
L’importante è la cura della relazione con lui, la cura di questa dimora del cuore. Qualcuno ha
scritto che oggi nella chiesa si parla tanto di Dio, ma si parla poco con Dio. Quasi che il pericolo
fosse l’impallidirsi della relazione, della dimora del cuore. Quella dimora in Dio che ci permette di
essere vivi e non rami secchi.
Quale è la differenza tra il deserto e un giardino? La differenza non è l’acqua ma l’uomo. Dio non ci
ha ordinato di custodire un museo ma di coltivare un giardino. Ebbene Gesù si ricorda
dell’immagine più volte tramandata dall’Antico Testamento, dove la storia della vigna descrive e
racconta il rapporto tra Dio e il suo popolo, un rapporto, sul versante di Dio, fatto di cure, di
premure e di tenerezza per la sua vigna, sul versante dell’uomo, invece, una relazione seminata di
indifferenza, spesso, e anche di rifiuto.
Ma c’è di più. Gesù attribuisce a se stesso l’immagine della vite. “Io sono la vite, io la vite e voi i
tralci”. Possiamo ben dire che con il Battesimo è avvenuto questo innesto: noi, rami in qualche
misura selvatici, innestati alla vite che è Cristo riceviamo la pienezza della primavera.
È questo l’invito di Gesù: dobbiamo custodire l’innesto, averne cura, perché senza la
comunicazione con lui e con il Vangelo, si interrompe il flusso della linfa e. Diventare un ramo
secco, è questa la cosa che mi preoccupa di più, più dell’invecchiare negli anni: è l’inaridirmi, il
rinsecchirmi, l’ammuffire, il morire del cuore. Come evitarlo?
La condizione è ricordata da Gesù: “Rimanete in me”. Cioè, custodite l’innesto. Per sette volte in
questi otto versetti del Vangelo ritorna il verbo “rimanere”. Come un ritornello. Il verbo
“rimanere” è una parola molto cara all’evangelista Giovanni. Perché dice intimità, dice
appartenenza. Può capirla solo chi fa l’esperienza dell’amore. Significa che il mondo di Gesù, è
diventato il mio mondo, è l’aria che respiro, è la linfa che pulsa e genera sussulti di primavera e di
vita anche in me che sono ramo apparentemente secco.
Custodire l’innesto è il nostro impegno, è la nostra parola d’ordine. A volte sembra che la
preoccupazione più grande sia quella di tagliare e di bruciare. Posso anche sbagliarmi, ma non ci
vuole una grande abilità per scartare, ammucchiare e bruciare i rami secchi. L’arte dello Spirito sta
invece nel creare gli innesti e nel custodirli. Anche la nostra comunità è chiamata non a custodire
un museo, ma a coltivare un giardino!
Ricordiamocelo. Quale è la differenza tra il deserto e un giardino? La differenza non è l’acqua ma
l’uomo.
