Figlie della Chiesa Lectio XIX Domenica del Tempo Ordinario (Anno B)

XIX Domenica del Tempo Ordinario (Anno B)  (11/08/2024)

Vangelo: Gv 6,41-51 

È facile credere quando tutto va bene, quando Dio si manifesta nell’onnipotenza che siamo capaci di immaginare, quando sembra rispondere perfettamente alle nostre richieste o quando non chiediamo neanche e otteniamo ciò di cui abbiamo bisogno.

Nella prima lettura di questa XIX domenica del tempo ordinario la vicenda di Elia richiama la nostra attenzione proprio su questo.

La richiesta di Elia era stata esaudita: aveva umiliato i quattrocentocinquanta profeti di Baal sfidandoli sul Monte Carmelo e li aveva uccisi, dando prova al popolo d’Israele che il Signore è l’unico Dio. Ma ora che è minacciato dall’ira della regina Gezabele, ha paura e fugge nel deserto, sperando di salvarsi. Ma si ritrova solo, in un luogo inospitale… quasi un controsenso… infatti il suo desiderio di salvezza, nell’angoscia, si trasforma in desiderio di morte.

Il profeta vive il passaggio da uomo di fede che non esita a sfidare i falsi profeti, certo che il suo Dio si manifesterà, a uomo in crisi, in preda alla paura, desideroso di morire. Elia vive un momento delicato: ha una specie di cedimento psicologico e per questo chiede a Dio: “Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri”.

Può essere la morte la soluzione a tutti i problemi?

La protesta del credente verso Dio fa parte del cammino di fede, e potremmo anche dire che è lecita, quando ci si vede costretti a subire una serie di ingiustizie, di prove e disgrazie che non rappresentano certo la risposta che ci si aspetta da parte di Dio…

Siamo incapaci di accettare che egli sia diverso da come lo immaginiamo.

E questo lo viviamo spesso anche nelle nostre relazioni quotidiane, né soltanto nei confronti di Dio, perché quando l’altro si mostra diverso dai nostri schemi ci scombussola e ci sembra di non riconoscerlo più.

Dio però nel momento della crisi risponde da Padre: custodisce la vita del Profeta proprio come aveva nutrito di manna e acqua scaturita dalla roccia il popolo, in cammino nel deserto in fuga dall’Egitto; ora fa lo stesso con Elia, perché non si dimentica mai della nostra umanità fragile e la sostiene con il cibo essenziale.

Questa volta il pane non viene dal cielo direttamente, né l’acqua sgorga da una roccia, ma il pane è una focaccia cotta e l’acqua è stata già attinta e presentata in un orcio.

Elia però non si accorge di nulla, è come accecato dall’angoscia; e Dio si serve di un angelo per destare il profeta dal torpore della disperazione. Senza la voce di quell’angelo non si sarebbe reso conto di quel cibo che era accanto a lui.

Per due volte l’angelo lo tocca e lo risveglia. Ciò significa che abbiamo bisogno di mediatori umani, di angeli in carne ed ossa, di chi nella crisi ci scuote e ci riporta alla realtà, di chi si sporca le mani per noi, di chi ci raggiunge nel nostro deserto per non farci perire… di chi insiste e non si arrende.

Quante volte nella nostra vita è successo anche a noi di dire o pensare di qualcuno: sei proprio un angelo… oppure di avere la certezza che quella persona che abbiamo incrociato in quel momento difficile l’avesse mandata per noi il Signore…

Facciamo memoria di questo e teniamo vivi i ricordi con la gratitudine.

Quell’incontro con l’angelo che gli vivifica lo sguardo e il pane e l’acqua che lo hanno rifocillato hanno sul profeta due effetti.

Il primo è descritto subito: “Con la forza di quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti, fino al monte di Dio, l’Oreb”. Si tratta di un rinvigorimento fisico notevole, che gli consente di attraversare il deserto e superare il momento di debolezza che lo ha portato ad accasciarsi sotto una ginestra e a rifugiarsi in un sonno che sembra tanto una fuga dalla realtà, un rifugio, una scappatoia comoda per non affrontare la vita.

Il secondo effetto, ben più importante, viene descritto poche righe più avanti, quando Elia raggiunge l’Oreb esi incontra con Dio presso una caverna: oltre alla forza fisica, recupera anche la verità su se stesso, che è la cosa più importante.

Ciò che nella prima lettura era solo prefigurato, nel Vangelo si rivela in pienezza: il vero pane del cammino, che dà forza, vigore e conoscenza è Gesù stesso: Lui è disposto a fare della sua carne quel pane vivificante di cui abbiamo estremo bisogno.

Ma Gesù è il figlio di Dio fatto uomo e questa sua umanità scatena incredulità e mormorazione.

Mormorare è dissentire su un argomento o un’idea, non manifestando il proprio pensiero ma creando polemiche e chiacchiere all’insaputa del diretto interessato. Il mormorio è sempre contro qualcuno, non è mai con, non è mai costruttivo. I Giudei mormorano contro Gesù perché si è definito pane disceso dal cielo e questo va in contrasto con quello che pensano di sapere su di Lui.

È scandalosa l’idea di un Dio in carne ed ossa… un Dio di cui si conosce la vita quotidiana, le abitudini, la famiglia, il clan. Ciò che scandalizza è la sua umanità concreta. Forse perché questa lascia poco spazio all’immaginazione e a una personalizzazione… è più facile da accogliere un Dio misterioso e lontano, perché a conti fatti lo si fa diventare quello che si vuole.

Dio invece non si nasconde, come spesso invece facciamo noi; la sua visibilità e la sua presenza in mezzo agli uomini dovrebbe essere una grazia! Invece non è facile andare oltre, riuscire a intravedere nel figlio di Giuseppe il figlio di Davide, l’atteso, il Messia sperato… figuriamoci il Pane disceso dal cielo, che dà la vita eterna!

Eppure tutta la fede passa da qui: dall’accogliere un Dio vicino che si fa carne viva e la dona per la salvezza eterna di ciascuno. Questa fede è anch’essa dono di grazia, frutto di quell’abbandono fiducioso in Dio per ciò che con le nostre sole forze facciamo fatica ad accogliere; è questo slancio di fiducia che dà spazio alla grazia.

Gesù non si fa Pane di Vita per restare chiuso in un tabernacolo: ha bisogno di restare nel tabernacolo di carne del nostro cuore.

Le nostre fatiche e i nostri smarrimenti nei confronti di Dio non sono segno soltanto della nostra poca fede; spesso si rivelano come il luogo in cui Dio si fa prossimo a noi e ci nutre con un cibo che ci ridona la forza di andare avanti.

L’Eucarestia è questo cibo: non dobbiamo avere timore di partecipare al Banchetto Eucaristico solo perché ci sentiamo e siamo fragili, pieni di peccati e indegni di accostarci a Lui, perché Lui manifesta la sua paternità nella nostra fragilità.

Il Pane non è il premio dato a chi è forte nella fede, ma quell’alimento che ridona forza a chi l’ha persa a causa della propria debolezza, della fragilità della condizione umana.

Fonte:https://www.figliedellachiesa.org/it