XIX Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) (11/08/2024)
“Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo. La
mia carne è vero cibo, il mio sangue vera bevanda”. Si misero
a discutere tra loro. Lo sconcerto era totale.
E non giudichiamo sbrigativamente. Da capire è Gesù, ma
forse da capire sono anche quei lontani ascoltatori e gli
ascoltatori di oggi. E non tanto per le allusioni che potevano essere rintracciate in quelle parole,
quanto invece per i significati che le parole “carne” e “sangue” evocavano alla mente e nel cuore
di un ebreo.
“Carne” per la Bibbia è la vita dell’uomo, intesa nella sua drammatica fragilità. Il profeta Isaia dice:
“Ogni carne è come l’erba e tutta la sua gloria è come un fiore del campo. Secca l’erba, appassisce
il fiore, ma la parola del nostro Dio dura sempre” (Is 40, 6-8). Ma come? Tutto secca, tutto
appassisce, tutto finisce e tu alla tua esistenza fragile attribuisci poteri di vita eterna?
L’altra parola che sconcerta è “sangue”: bere il sangue! Per un ebreo era proibito. Nel libro del
Levitico leggiamo: “Ogni uomo, Israelita o straniero dimorante in mezzo a loro, che mangi di
qualsiasi specie di sangue, contro di lui, che ha mangiato il sangue, io volgerò la faccia e lo
eliminerò dal suo popolo” (Lev 17, 10-11).
La vita della carne è nel sangue. Il sangue custodisce la vita: il sangue è intoccabile, anche il
sangue di Caino. Dio lo segna sulla fronte perché nessuno si creda autorizzato a colpirlo. Il sangue
segno della vita, il sangue per dire la sacralità della vita. Lo ricorderemo anche quando costretti ad
uccidere per nutrirci, ricrederemo che ogni essere vivente appartiene a Dio.
E’ la durezza del vivere che permette alla vita, anche la nostra, sia pagata a prezzo di un’altra vita.
Ciò è vero per ogni volta che noi mangiamo. Non per vivere complessi di colpa ma per vivere la
gratitudine. Il nostro nutrirci per vivere viene dopo un sacrificio: qualcosa o qualcuno si è
sacrificato per noi. Ogni nostro banchetto è, in qualche misura, sotto il segno del dono. Non
sempre lo pensiamo ma è così: qualcosa si consuma per darci la possibilità di vivere, per darci vita.
Forse è questa una delle dimensioni sconcertanti del consumismo: che si consuma cancellando
ogni significato del dono. Tutto viene consumato come se fosse spoglio, senza gratitudine. Eppure,
quanto è vero che questo cibo, la premura, l’amore che qualcuno ha messo per prepararcelo nutre
la nostra vita, ci dona vita.
Stiamo smarrendo purtroppo la simbolicità dei riti più comuni, come il mangiare, riti che
diventano volgari se sono all’insegna di un arido consumo. Il rito del mangiare, del mangiare
insieme, come il rito dell’amore, come il rito religioso vissuto insieme… se noi non vi leggiamo in
filigrana un dono, un’offerta, tutto diventa soltanto arido consumo.
“Consumeremmo” l’Eucaristia se ogni volta non ci stupiamo fino a commuoverci per l’atto di
donazione di Gesù il Signore per il suo corpo dato per noi e per tutti. Se il rito è vero, dice Gesù, fa
nascere una dimora: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui”. Se il
rito è vero fiorisce la dimora e nasce l’intimità. Se il rito è vero non è consumo.
“Maestro, dove abiti?” gli chiesero quei lontani discepoli. “Venite e vedrete”; andarono e videro.
“Maestro, dove abiti?” gli chiediamo noi, duemila anni dopo, noi eredi di quei lontani discepoli.
“Venite e vedrete” e vediamo ove abita. Vediamo il Signore abitare in questo gesto di sconfinata
donazione. E ci viene anche detto che, se lo faremo, avremo la vita eterna. Il resto si consuma, ma
l’amore no, l’amore è eterno.
