IV Domenica di Avvento (Anno C) (22/12/2024) Liturgia: Mi 5,1-4a; Sal 79; Eb 10,5-10; Lc 1,39-45
Due donne incinte. Sembra di vederle, nel vivido racconto di Luca.
L’adulta Elisabetta, con il suo seno deposito prezioso di una nuova
vita e la giovane Maria, appena feconda per il sussurro di un angelo
cui ella ha dato tutta la sua disponibilità.
Elisabetta viene da una lunga attesa, da desideri e progetti andati
delusi, dal disagio di una sterilità non voluta e mai accettata. E
Maria ha ancora negli occhi la sorpresa di una “visita” anticipata, di
una scelta capitata quasi d’improvviso che la immette in una storia
nuova, diversa da come poteva essere immaginata.
Eppure entrambe si rendono conto, da donne innamorate, del momento straordinario che stanno
vivendo, consapevoli della vita che coltivano in seno di essere parte di un disegno che non
riguarda solo la loro esistenza ma anche quella del loro popolo e della loro comunità. Non si è mai
fecondi solo per sé stessi se si accetta di essere fecondi, così da produrre vita, umanità, giustizia,
libertà, pace, là dove siamo chiamati a vivere.
La sterilità è la chiusura che ci isola e che ci opprime; è la difesa ad oltranza delle proprie
prerogative e privilegi; è, ancora, il non dare “futuro” alle aspettative che pure sgorgano
spontanee nel cuore di ciascuno. Chiuso, sigillato, impenetrabile, arido e disincantato è, oggi,
l’orizzonte di troppa gente.
Le donne si incontrano. Si sono cercate, aiutate, in una condivisione dettata non solo dal comune
stato fisico ma da una solidarietà di sentimenti, di speranze, di preoccupazioni, di fatiche davvero
straordinarie. Le due donne “sanno” gustare insieme la trepidazione, i sussulti, le sensazioni che
giorno dopo giorno segnano la loro vita di madri per la prima volta, fino a far partecipare alla loro
esperienza l’ospite che portano in seno.
Assumere i sentimenti dell’altro, condividere la fatica quotidiana, accompagnare con delicatezza
l’altra a “partorire” senza eccessiva angoscia, fa parte della sensibilità di queste donne che si
scoprono “complici” della vita di tutti, simbolo di un’esistenza che sa tenersi aperta quando si
riconosce la grandezza del mettere al mondo un uomo.
Certo, occorre aver qualcosa da mettere al mondo, da far nascere di nuovo. Occorre rendersi
conto che la storia in cui siamo immersi ha ancora bisogno di tenerezza, di umanità, di giustizia,
vissute e fatte dilatare da uomini e donne che sanno denunciare la sterilità di un mondo senza più
aspettative, scettico e, qualche volta, cinico. E si continuano a dire parole vuote, ovvie e ripetitive.
Si continuano a celebrare riti religiosi e profani senz’anima. Si compiono gesti logori, consunti e
prevedibili.
Si continua ad agire con grande superficialità, senza accorgersi dell’angoscia strisciante, della
povertà dei rapporti umani sempre più fragili e precari. Non c’è nessuno che sappia “partorire”
speranza, fiducia e accoglienza. Non c’è nessuno che, abbandoni i luoghi comuni di una società
sterile e disincantata che sappia ricuperare il senso di una relazione che valorizzi l’altro, il volto di
tante sorelle e di tanti fratelli. Il nostro grembo è spesso gonfio di arroganza, di prepotenza,
piuttosto che di attenzione, di consapevolezza e di seria disponibilità ad assumersi una
responsabilità operativa.
Ma c’è un canto di gioia. Le due donne del vangelo esprimono tutta la loro per il “dono” che si
portano in grembo. Esse sentono di essere parte di un mistero che appartiene a tutta l’umanità,
figlie di un progetto che le supera e a cui vale la pena di darsi gratuitamente come si fa di fronte
alla persona amata, di fronte a una promessa che riempie la vita e la rende nuova, aperta a
orizzonti imprevedibili.
Elisabetta e Maria con il loro Magnificat diventano l’immagine di tutti coloro che percepiscono
che la loro vita è accompagnata da una benevolenza e da una soavità che incanta e che ci fa
trasalire, soavità che è come una carezza e un bacio immenso. Il bacio di Dio.
