Don Paolo Zamengo”La povertà è fastidiosa”

VI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C)
Ger 17,5-8   Sal 1   1Cor 15,12.16-20   Lc 6,17.20-26

La povertà torna sempre a far parlare di sé. Tornano i poveri dentro le
città. Dove scorre il flusso inesorabile della vita. E sono sempre di più le
donne e gli uomini che chiedono aiuto e invocano attenzione per una
crescente precarietà che è insieme economica, umana, materiale e
spirituale.
Nella povertà, infatti, non sono soltanto i rapporti con i beni necessari
per la vita di tutti i giorni che saltano, ma anche quelli che tengono unite le persone e le famiglie,
che ne facilitano la convivenza, la condivisione, l’amicizia e gli stessi progetti di vita. Tutto si
complica, tutto si ridimensiona e tutto si inaridisce.
È facile fare discorsi sulla povertà quando la povertà è lontana, quando colpisce gli altri, le cui sorti
non incidono direttamente sul nostro tenore di vita e le cui immagini servono tuttalpiù per lunghe
disquisizioni retoriche sulla giustizia e sulla sobrietà nelle scelte personali. Tra ricchi e poveri resta
una distanza incolmabile di fatto. C’è solo una contemporaneità cronologica, mai però una
prossimità esistenziale.
Come leggere nelle nostre comunità le beatitudini di Luca, così rudi e così essenziali? «Beati voi
poveri […]; ma guai a voi ricchi[…]», scrive l’evangelista (Lc 6, 20-26), interpretando lo stato
d’animo della prima comunità cristiana che vive, già allora, tra ricchi gaudenti e poveri miserabili,
tra potenti e oppressi, tra sazi e affamati, tra i molti Epuloni e i tantissimi Lazzaro della storia.
Vale subito la pena di ricordare che le parole del vangelo di questa domenica non vogliono essere
una denuncia e neppure una esortazione moralistica; esse indicano soprattutto una situazione
concreta e ci propongono una scelta di campo: quella di Dio che prende le difese dei poveri e li
accoglie come i veri cittadini del suo regno.
Le beatitudini sono davvero “un mondo al contrario”, un regno dove non ci sono emarginati,
poveri e oppressi. Dio si prende a cuore la loro sorte, lui che ha donato al mondo un Figlio povero
e perseguitato, quel Gesù di Nazaret che, come dice Paolo, “da ricco che era, si fece povero” (2Cor
8, 9), testimone privilegiato della tenerezza del Padre.
Attraverso la vita di Gesù la presenza di Dio nella storia è una presenza di povertà, al punto da
assurgere al rango quasi di sacramento, cioè di segno di salvezza, di luogo sacro della sua grazia,
come lo è l’Eucaristia e come lo è la Chiesa per coloro che cercano Dio.
Le beatitudini annunciano un fatto inaudito: nei poveri, nella figura del popolo schiavo, nelle
donne sterili divenute madri, nelle immagini straordinarie del servo di Jahvé, nel Crocefisso, si
manifesta Dio. E chi li accoglie può dire di avere incontrato Gesù.
In questo senso le beatitudini sono la più grande minaccia che mai fu pronunciata contro l’umanità
chiusa in se stessa, preoccupata solo della propria sicurezza, gelosa dei propri privilegi,
sostanzialmente idolatra. Ma le comunità cristiane, noi, credono davvero che sia così?
La Chiesa diventa Chiesa dei poveri, ma deve diventare anche Chiesa povera se partecipa alla
spoliazione, all’impoverimento, all’annientamento di Cristo. Questa è la sua vera e particolare
ricchezza che la tignola non corrompe e i ladri non possono rubare.

E solo per questo la chiesa diventerà lo spazio ricco di relazioni, di affetti, di ospitalità e di
disponibilità, capace di portare finalmente e reciprocamente i pesi gli uni degli altri.