Don Marco Ceccarelli Omelia VIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C)

Domenica 2 Marzo (DOMENICA – Verde)
VIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C)
Sir 27,5-8   Sal 91   1Cor 15,54-58   Lc 6,39-45

  • Testi di riferimento: Sal 5,10; 36,2-4; Pr 10,19; 13,3; 18,21; 29,5; Is 58,2; Ger 2,23.34-35; 8,5;
    14,14; 17,9; 23,26; Am 6,11; Mt 12,34-37; 15,11.14; Lc 12,8-9; 16,15; 17,3; Gv 8,7-9; 9,41; 13,13;
    15,20; At 5,3; Rm 2,17-21; 3,13-14; 10,9-10; 1Cor 4,4-5; 15,7-9; Ef 4,29; 5,4-6; 2Tm 2,25; 3,2-
    8.13; Eb 13,21; Gc 3,2-12; 2Pt 1,9; Ap 3,17-18
  1. Lc 6,39-42
  • In questa prima parte del brano odierno di Vangelo si presentano delle similitudini che in qualche
    modo si riallacciano al precedente discorso riguardo al “non giudicare”, come si può constatare anche dal parallelo di Mt 7,1-5. È evidente che nell’atteggiamento di chi giudica è sottinteso il presupposto di sentirsi migliore dell’altro. Chi giudica un determinato comportamento di una persona
    ritiene implicitamente di essere migliore (almeno sotto quell’aspetto che sta giudicando). Se al cristiano è quindi chiesto di non giudicare, non è perché egli è tanto più buono e più bravo dell’altro
    che è anche così “umile” da non volerlo giudicare. Come a dire: “Tu sei un disgraziato, ma siccome
    io sono buono non ti giudico”. Il cristiano invece non giudica semplicemente perché sa bene di non
    essere migliore di nessuno.
  • Si può dare il caso in cui uno, per il fatto di essere in autorità o con un ruolo di guida della comunità, debba esprimere un giudizio. Si tratta di compiere un discernimento sulla realtà, come servizio
    all’altro. Ma per svolgere tale discernimento occorre vederci bene; un cieco non può guidare un altro cieco. Oppure, sappiamo che la correzione fraterna è un valore per i cristiani (Lc 17,3; 2Tm
    2,25); ma anche in questo caso occorre “vederci” bene. Ora, è impossibile poterci vedere se si ha
    una trave davanti agli occhi. Non si può correggere l’altro se non si ha luce sulla realtà. E la prima
    luce che occorre avere è quella di essere dei peccatori.
  • Per questo Gesù usa qui il termine “ipocriti” (v. 42). L’ipocrisia consiste nel voler ignorare una
    realtà evidente, pretendere di nascondersi dietro ad un dito. È il vivere in quell’inganno, in quella
    finzione (“ipocrita!”, v. 42) di chi, per convenienza, assume consciamente un comportamento che
    non corrisponde alla realtà. Perciò in Sal 36,2-4 si dice che il peccato parla nel cuore del malvagio
    così che egli adula se stesso. Si tratta di quel tipo di adulazione (cfr. Sal 5,10; Pr 29,5) che è volutamente ingannevole (nel testo greco si dice: “Inganna se stesso”). Non un inganno o autoinganno
    inconsapevole, ma cosciente, tanto da compiacersi di tale autoinganno. Questa è la condizione
    dell’ipocrita che “fa finta”, cioè che pretende di essere quello che non è – pur sapendo di non esserlo – che pretende di vedere bene quando invece sa di essere cieco. Per questo il peccato non sta
    nell’essere ciechi, ma nell’affermare di non esserlo (Gv 9,41).
  • L’ipocrita può anche auto-illudersi di considerarsi un peccatore e di fare magari penitenza, mentendo innanzitutto a se stesso. Può mettere in mostra un’umiltà affettata, un’ostentata ricerca del bene dell’altro, una plateale religiosità (2Tm 3,5). Ma in realtà non ha nessuna intenzione di riconoscere veramente il suo peccato e detestarlo e convertirsi. Si presenta come maestro per gli altri, come uno che è in grado di correggere, ma in realtà dovrebbe cominciare a correggere se stesso e non
    ha alcuna intenzione di farlo. L’ipocrita vive nella doppiezza di mostrarsi penitente, pio e timorato
    di Dio all’esterno, ma all’interno non ha mai rinunciato, e non intende farlo, ai suoi vizi, ai suoi
    peccati, ai suoi idoli. Lui è Dio di se stesso, e in fondo pretende di esserlo anche per gli altri.
  • Esiste anche un peccatore falso che dipinge se stesso come un grande peccatore e racconta in giro i suoi innumerevoli peccati, ma dentro di sé non li percepisce come reali ed essi non provocano
    in lui nessun tormento né rimorso di coscienza. Per una persona simile non c’è pentimento, neanche se compisse migliaia di opere e recitasse migliaia di preghiere ogni giorno: Cristo infatti è un
    medico accorto che sa discernere il vero paziente da uno che pretende di esserlo … Cristo è venuto
    a cercare i veri peccatori, sprofondati nella compunzione del rimorso e della disperazione, e non
    presta ascolto ai mentitori che si proclamano pentiti e si autocondannano di fronte agli altri per
    procurarsi maggior prestigio grazie alla loro umiltà: costoro verranno lodati come penitenti, ma in
    realtà non lo sono … L’essenza del pentimento è la consapevolezza del peccato, il grido di dolore
    per il crimine e la certezza dell’assenza di luce (Matta el Meskin).
  1. Lc 6,43-45
  • In questa seconda parte abbiamo la similitudine dell’albero e dei frutti; un esempio eloquente,
    quasi banale. Quello che stupisce però è l’applicazione, non soltanto in riferimento al cuore umano,
    ma soprattutto al fatto che i “frutti” di una persona, quelli che sgorgano dal suo “cuore” – cioè, secondo il senso biblico, dalla sua “mente” – sono identificati con i suoi discorsi. Ciò può certo essere
    un’indicazione che eventuali falsi profeti potrebbero essere presenti anche fra i discepoli di Gesù.
    Ma più semplicemente l’allusione è ancora al comportamento “ipocrita”. Le nostre parole sono ciò
    che più facilmente usiamo per nasconderci, per essere ipocriti, per giudicare, per sembrare quello
    che non siamo, per ingannare, per giustificare noi stessi (cfr. Lc 16,15); perciò sono proprio quelle
    che rivelano la bontà della pianta. Ed è per questo che dalle nostre parole noi stessi saremo giudicati; Mt 12,36-37: «Di ogni parola senza frutto che gli uomini diranno, dovranno rendere conto nel
    giorno del giudizio; infatti in base alle tue parole sarai giustificato e in base alle tue parole sarai
    condannato».
  • «La bocca parla per la pienezza del cuore». Nella Bibbia il cuore è la mente. Per agire bene, e
    quindi anche per parlare bene, cioè correttamente dal punto di vista morale, occorre pensare bene. Il
    nostro agire è una conseguenza del nostro pensare. Le nostre parole – in definitiva – rivelano il nostro modo di ragionare (vedi prima lettura) e quindi rivelano se la nostra mente ha acquisito il modo
    di pensare di Dio o continua a ragionare secondo le modalità umane, come Gesù, in Mc 8,33, rimprovera a Pietro di fare. Se non si pensa correttamente non si può agire e parlare correttamente.
    Pensare correttamente implica una conoscenza della realtà e di noi stessi. Il retto modo di pensare è
    quello di Dio. Si tratta di assumere la mentalità di Dio. Come ci vede Dio? Come Dio vede me e tutto il resto dell’umanità? Come dei peccatori che hanno bisogno di essere salvati. Allora fatti una
    domanda: Tu non sei uno che è stato salvato da Cristo e che magari continua ad aver bisogno di essere salvato? Non sei uno che ha bisogno di Cristo anche tu? E allora perché giudichi un altro che è
    nella tua stessa condizione di peccatore? Per questo considerarsi migliori di un altro è un’ipocrisia.
    In definitiva è ritenersi non bisognoso di salvezza e quindi di Cristo.
  • Ancora una volta, si vuole sottolineare che l’etica cristiana implica un cambio di natura, un cambio di cuore/mente. Agere sequitur esse; l’agire è una conseguenza della natura. Per questo un cane
    non potrebbe mai cinguettare, per quanto ci possiamo sforzare ad addestrarlo. La “divinizzazione”
    del cristiano lo porta ad assumere un modo di considerare se stesso, gli altri, e tutta la realtà, simile
    a quello del Padre suo celeste.
  • L’ipocrisia delle parole si manifesta, ancora una volta, nella falsa religiosità. Con le nostre parole
    possiamo esprimere una grande religiosità, che magari invece non corrisponde assolutamente alla
    realtà. Per questo nei versetti successivi al nostro brano Gesù rimprovera proprio questo, di dire delle cose non conformi ai fatti (Lc 6,46-49). Le parole “senza frutto” di Mt 12,36 sono quelle che non
    sono accompagnate da fatti corrispondenti. Lo stesso per l’uomo della parabola a cui viene detto:
    «Dalla tua bocca ti giudico servo malvagio … tu sapevi … ma non hai fatto» (Lc 19,22-23). Tante
    persone sono considerate ottime, senza esserlo, e tante altre pessime, senza esserlo. Alla fine tutto
    verrà alla luce. Per questo san Paolo raccomanda: «Non giudicate prima del tempo, finché venga il
    Signore, il quale metterà in luce le cose nascoste della tenebra e manifesterà le intenzioni dei cuori;
    e allora ciascuno riceverà la sua lode da Dio» (1Cor 4,5).
  • Ultimo, ma non per importanza. La salvezza – Paolo la chiamerebbe anche la “giustificazione” –
    viene dalla confessione di Gesù come Signore; Rm 10,9-10: «Se confesserai con la tua bocca Gesù
    è il Signore … sarai salvo. Con il cuore infatti si crede per la giustificazione e con la bocca si confessa per la salvezza». La salvezza è (anche) una questione di “parole”. Lo sapevano bene tanti cristiani dei primi secoli, ma anche di quelli successivi, che venivano spinti, anche sotto tortura, a rinnegare Cristo e magari a confessare che il re, l’imperatore, il governante di turno, era dio. Le parole
    sono tutt’altro che “aria fritta”. In questo caso sono fatti, e fatti pesanti. Per questo Gesù ha anche
    detto: «Chiunque mi confesserà … anche il figlio dell’uomo lo confesserà … chi invece mi rinne-
    gherà … sarà rinnegato …» (Lc 12,8-9). Ciò può valere in qualche modo – mutatis mutandis – anche per situazioni più quotidiane e comuni che il martirio.
  1. In definitiva, anche le parole vanno usate (come tutto ciò che abbiamo) a servizio degli altri, in
    funzione dell’amore: «Ti viene dato un breve precetto: AMA E FA CIO’ CHE VUOI. Sia che tu
    taccia, taci per amore; sia che tu parli, parla per amore; sia che tu corregga, correggi per amore; sia
    che perdoni, perdona per amore; sia in te la radice dell’amore, poiché da questa radice non può procedere se non il bene»: sant’Agostino)

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