Domenica 4 Maggio (DOMENICA – Bianco)
III DOMENICA DI PASQUA (ANNO C)
At 5,27-32.40-41 Sal 29 Ap 5,11-14 Gv 21,1-19
Testi di riferimento: Ger 16,16; Sal 37,25; Sir 15,16; Mt 5,10-12; 16,24; 27,25; 26,32-33; Mc 10,34;
16,12; Lc 5,4-11; 22,31; 24,16.41; Gv 2,5.25; 6,9ss.; 12,32-33; 13,36-38; 15,26; 18,12.31-32;
20,14; 21,7; At 2,22-24; 3,13-15; 4,10-11.19; 10,41; 12,3-4; 20,28; 21,11; Gal 3,13; 1Ts 2,15-16;
Eb 2,4; 10,34; Gc 1,2; 1Pt 2,12; 2,24; 4,13-16; 5,2; 2Pt 1,14; Ap 14,8-12
- Prima lettura. Lo Spirito Santo che gli apostoli hanno ricevuto a Pentecoste è il principale testimone della Risurrezione di Gesù (v. 32). Senza dubbio gli apostoli sono stati chiamati ed inviati a
dare testimonianza a Gesù risorto. Ma è evidente che possono farlo, nonostante l’opposizione decisa
delle autorità giudaiche e la conseguente persecuzione, soltanto perché in essi ora è presente qualcosa di nuovo, vale a dire lo Spirito Santo. La testimonianza che essi presentano non riguarda (semplicemente) un fatto ad essi esteriore – aver visto la persona risorta di Gesù in mezzo a loro – ma ad
essi interiore: la presenza di quella persona dentro di loro, in forza dello Spirito Santo. In loro esiste
una “forza” (cfr. At 1,8) che prima non avevano; la forza della risurrezione di Gesù nella persona
dello Spirito Santo. Se possono obbedire a Dio piuttosto che agli uomini, e non avere paura di
quest’ultimi, è in forza della risurrezione di Cristo che ora abita in loro tramite lo Spirito. Proprio
Lui dà testimonianza che Cristo ha vinto la morte, prima ancora delle loro parole. Ma, d’altro lato,
lo Spirito non si riceve una volta e basta. Dio continua ad effondere lo Spirito sugli apostoli, se sono
disposti ad obbedire a Lui. Da ciò si evince che se si obbedisse agli uomini piuttosto che a Dio lo
Spirito si ritirerebbe. Allora occorre “usare” il coraggio che viene dallo Spirito e rimanere fedeli alla
chiamata di Dio, affinché tale Spirito continui ad esercitare la sua potenza. - Il Vangelo, prima parte: vv. 1-14.
- Si tratta di un episodio simbolico di quanto ha significato l’esperienza dei discepoli durante il ministero di Gesù e di ciò che significherà in futuro. I discepoli hanno avuto difficoltà a capire la realtà profonda di colui che stavano seguendo e la sua missione. Per esempio, Pietro non ha capito il
gesto della lavanda dei piedi, ma Gesù gli dice che lo capirà in seguito (Gv 13,7). Quando i discepoli gli diranno di aver finalmente compreso (Gv 16,29-30) Gesù li smentirà, annunciando il loro abbandono (Gv 16,31-32). Così nel brano di Vangelo odierno troviamo i discepoli ancora una volta
davanti a Gesù, ma senza riuscire a capire di chi si tratti (v. 4). Il miracolo serve ad aprire loro gli
occhi, non solo sull’identità di Gesù, ma anche sul fatto che senza di lui non possono far nulla (Gv
15,6). - Possiamo notare che Gesù non ha bisogno dei pesci degli apostoli, perché lui ha già pane e pesci
da offrire loro (v. 9). La presenza di Cristo in mezzo ai suoi, dopo la sua ascesa al Padre, continuerà
a manifestarsi nella capacità di saziare i suoi discepoli, di dare loro un cibo che non è frutto dei loro
sforzi, ma un puro dono di Dio, un puro “pane dal cielo”. Essi “sanno che è il Signore” (v. 12) nel
momento in cui la sua presenza è in grado di saziarli nonostante il loro nulla. I cristiani di tutti i
tempi e di tutti i luoghi faranno esperienza del Signore risorto come di una presenza viva in mezzo a
loro che sazia ogni loro desiderio di vita. Anche se non possiamo riconoscerlo nei tratti fisici – perché non lo vediamo fisicamente – anche se i nostri occhi non sono in grado di vederlo, tuttavia sappiamo benissimo che è Lui. Sappiamo – e crediamo – che il Signore è presente in mezzo a noi e in
noi senza bisogno di vederlo fisicamente. Si compie così quanto si afferma in 1Pt 1,8: «Voi lo amate, non vedendolo, e credendo in lui – non ancora potendolo guardare – vi rallegrate». - Analogia con la moltiplicazione dei pani. Con il segno dei pani e dei pesci narrato in Gv 6, con cui
sazia la moltitudine e persino ne avanza, Gesù mostra che lui dà il vero pane dal cielo, e tale pane è
la sua stessa persona (Gv 6,51). Anche in quel caso si era in riva al lago di Tiberiade, in un contesto
pasquale, con gente senza cibo. Il fatto è che con tutta la sua fatica l’uomo non riesce a saziare la
sua fame di vita. Anche se Gesù offre alla folla pani e pesci, non è quello il vero cibo per cui bisogna cercare Cristo. Anche i discepoli che non hanno nulla da mangiare sono come quelli che seguivano Gesù per un cibo che perisce (Gv 6,27). Invano essi penano per procurarsi un pane di fatiche
(Sal 127,2). È Cristo che offre gratuitamente il cibo che sazia; e questo non è altro che lui stesso. - Non si può essere cristiani senza Cristo. Un discepolo di Gesù può, senza accorgersene, illudersi
di poter essere cristiano senza Cristo, quando invece, come ha detto lui stesso: “Senza di me non
potete far nulla”; ciò va inteso in relazione alla missione, all’essere cristiani. Si può essere platonici
senza Platone o freudiani senza Freud; ma non cristiani senza Cristo, perché si è cristiani – di nome
e di fatto – se Cristo vive in noi. Il cristiano ha in sé la vita di Gesù risorto, una vita che deve sempre
essere nutrita. Un cristiano non trasmette Cristo semplicemente perché lo ha studiato sui libri, nel
catechismo, ma perché vive nella comunione con lui. Ti accorgi quando uno ti parla di Gesù perché
lo ha studiato o perché ne ha un rapporto diretto, da persona a persona. Vivere nella comunione con
lui significa essere diventato carne della sua carne, osso delle sue ossa, perché Gesù vive in te. Di
qualsiasi persona morta possiamo studiarne l’insegnamento, ma di Gesù possiamo avere una relazione personale, da vivo a vivo.
- Il Vangelo, seconda parte: vv. 15-19.
- Dopo che Pietro (insieme agli altri discepoli) ha fatto l’esperienza del suo nulla e della sazietà donata da Cristo, ora può compiere la missione di “pascere”, cioè di nutrire, il gregge (i pastori della
Chiesa – consapevolmente o no – nutrono gli altri con lo stesso cibo con cui nutrono se stessi …).
Pietro è dunque innanzitutto immagine di ogni discepolo che ha bisogno di fare esperienza della
propria miseria e incapacità nel seguire Cristo con le proprie forze. E scoprire soprattutto, come ha
dovuto fare Pietro, che Cristo ci ha chiamati a seguirlo pur sapendo in anticipo che noi non valiamo, che siamo capaci di rinnegarlo (v. 17). La chiamata di Gesù a seguirlo non si basa dunque sul
nostro valore, ma sulla totale gratuità dell’amore di Dio. - Il dialogo di Gesù con Pietro continua quello interrotto durante l’ultima cena (Gv 13,36-38). Lì era
Pietro che volontariamente voleva seguire Gesù; era il Pietro “giovane che andava dove voleva”,
nel senso di fare la propria volontà (si può seguire Cristo infatti non perché lui ci ha chiamati, ma
semplicemente per nostra propria volontà). Però Gesù gli aveva detto che allora non poteva seguirlo, ma lo avrebbe fatto più tardi. Adesso, dopo l’evento pasquale, dopo aver riconosciuto la sua incapacità a seguire Cristo e a dare la sua vita per lui, Pietro può sentirsi dire “seguimi” (v. 21) e in
forza di questa chiamata potrà dare la sua vita. - Il discepolo non può desiderare altro che essere come il suo maestro (Gv 13,16; 15,20). Così Pietro, immagine del discepolo, seguirà le stesse orme di Cristo. Non c’è nulla di più grande per un cristiano che l’assomigliare a Cristo, perché cristiano viene da Cristo come Pietro viene da pietra (S.
Agostino). Infatti Pietro, come Cristo, sarà cinto (parallelo con il gesto di Gesù in Gv 13,4-5), sarà
legato come un condannato a morte (cfr. Gv 18,12.24), portato dove lui non vuole, cioè facendo la
volontà di un altro (cfr. Lc 22,42), consegnato per “invidia” (cfr. Mt 27,18) come ci dice san Clemente (1Clem V,4), messo in croce (Eusebio; lo stendere le mani come segno della morte in croce),
e glorificando Dio con la sua morte (cfr. Gv 12,27-28; 13,31; 21,19).
Fonte:http://www.donmarcoceccarelli.it/
