Don Luciano Labanca”Una presenza nuova

Domenica 1 Giugno (SOLENNITA’ – Bianco)
ASCENSIONE DEL SIGNORE (ANNO C)
At 1,1-11   Sal 46   Eb 9,24-28;10,19-23   Lc 24,46-53

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto». Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio.

Commento

L’Ascensione del Signore al cielo, così come la racconta Luca, è il compimento silenzioso e glorioso della missione terrena di Gesù. È come un ponte tra Pasqua e Pentecoste: tra il dono della salvezza e la sua comunicazione universale, tra la gloria del Risorto e l’inizio della missione della Chiesa. Il verbo stesso, “ascendere”, suggerisce un movimento verso l’alto, ma quello che avviene in realtà è molto di più di un gesto fisico: è il compimento del grande abbassamento iniziato con l’Incarnazione. Colui che era disceso fino a condividere la nostra carne, la nostra storia, la nostra morte, ora è elevato nella gloria, portando con sé l’umanità redenta. In questo movimento, la nostra umanità è trasfigurata, glorificata, inserita per sempre nel cuore stesso della Trinità. Qui nasce la speranza cristiana: il nostro destino è l’eternità, dove si vive la vera comunione nell’abbraccio eterno del Padre. I Padri della Chiesa ci insegnano: “Dio si è fatto uomo, perché l’uomo si facesse Dio”. L’Ascensione è il sigillo di questa promessa: Cristo, mediane il suo mistero Pasquale, compimento dell’Incarnazione, attraverso la sua umanità glorificata, ci ha introdotto nel cielo. Un dettaglio del Vangelo di Luca illumina tutto il mistero: Gesù si separa dai suoi discepoli benedicendoli. È la sua ultima azione visibile. Il Figlio che benedice, che “dice bene”, lascia su di loro – e quindi su ciascuno di noi – il favore permanente del Padre. È una scena semplice, un gesto di cura, un distacco che non spezza, ma inaugura una presenza nuova. Gesù non si allontana, ma si fa presente in loro, come loro sono presenti in Lui, come i tralci nella vite (cfr. Gv 15,1-8). I discepoli, di fronte a questo, non sono confusi o smarriti, ma si prostrano, adorano, e tornano a Gerusalemme pieni di gioia. È la gioia di chi ha compreso che l’assenza di Cristo secondo la carne è in realtà una nuova, più profonda forma della sua presenza. Questo è il cuore dell’Ascensione: Cristo non è più visibile agli occhi del corpo, ma diventa accessibile nel cuore della fede. È presente in ogni luogo e in ogni tempo, nell’Eucaristia, nella Parola, nella comunità, nel povero, nella Chiesa. Non siamo più spettatori, ma protagonisti: la benedizione ricevuta diventa una missione da compiere. Il Vangelo si chiude a Gerusalemme, il luogo della croce e della resurrezione, ma anche il punto di partenza della Chiesa. Non a caso, gli Atti degli Apostoli – che sono il secondo volume scritto dallo stesso Luca – riprendono esattamente da lì. Due uomini in bianche vesti (figure angeliche) dicono ai discepoli: “Perché state a guardare il cielo?”. C’è un invito forte alla concretezza, senza fughe dal mondo, ma a rimanere saldi in esso: non fuggiamo dal mondo, ma portiamo nel mondo la luce del cielo. Come ha affermato il Concilio Vaticano II: “L’attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì stimolare la sollecitudine per la terra presente” (Gaudium et Spes, 39). Con lo sguardo rivolto al cielo e i piedi ben piantati nella terra, anche noi camminiamo sotto la benedizione del Signore. Non da soli, ma con la forza dello Spirito. È Lui che ci rende capaci di vivere e testimoniare il Vangelo in ogni tempo e luogo. L’Ascensione non chiude la storia di Gesù, ma apre la nostra: ci rende Chiesa in cammino, membra di un Corpo attratto dalla gloria del suo Capo, che un giorno condivideremo in pienezza.

Bene-dire (a cura di Mons. Francesco Diano)

Come si vede, prima componente della speranza, che io propongo, è il dialogo con Dio, da figlio a padre, da povero peccatore a colui che è misericordia infinita; esso va bene tanto nei momenti della gioia quanto in quelli del dolore; chi non lo conosce, questo dialogo, o l’avesse da tempo sospeso o tralasciato, dovrebbe riprenderlo quanto prima. Altra componente della speranza: dare più spazio alla parte migliore di noi, che bisogna saper scoprire, far riemergere dal profondo e valorizzare. La gente, oggi, mitizza volentieri e cerca modelli di vita nei divi del cinema, nei campioni dello sport, negli uomini che hanno successo. Questa gente, si direbbe, si ispira a Carlyle, che pensò agli “eroi” come a “uomini superiori”, sorti a guidare i popoli. Meglio ispirarsi al nostro Giambattista Vico, per il quale l’”eroe” è “qui sublimia appetit”, chi cioè tende a cose alte: alla perfezione morale, all’unione con Dio, a promuovere, secondo le proprie possibilità, l’avanzamento di ogni uomo e di tutto l’uomo. C’è davvero maggiore speranza in noi, quando sentiamo più cocente la nostalgia di un’autentica grandezza umana. Quella, per esempio, che Amleto attribuiva al suo defunto padre, dicendo: “Tutto in lui armonizzava così bene che la natura sembrava alzarsi in punta di piedi e segnarlo a dito dicendo: Quegli era un uomo”.  Oppure l’altra grandezza, di cui un poeta francese: “L’homme est un dieu tombé qui se souvient des cieux”, l’uomo è un dio decaduto, che ha nostalgia del cielo. Noi siamo infatti una specie di angelo che non ha più le ali, ma se ricordiamo di averle avute e se crediamo che le riavremo, veniamo trasfigurati dalla speranza (A. LUCIANI [Giovanni Paolo I], Da “Opera Omnia”, voll. VII, Padova, Messaggero, 1975-1976, 540-41).

Preghiera

Gesù, vorremmo sapere che cosa sia stato per te tornare nel seno del Padre, tornarci non solo quale Dio, ma anche quale uomo, con le mani, i piedi e il costato piagati d’amore. Sappiamo che cosa è tra noi il distacco da quelli che amiamo: lo sguardo li segue più a lungo che può… Il Padre conceda anche a noi, come agli apostoli, quella luce che illumina gli occhi del cuore e che ti fa intuire Presente, per sempre. Allora potremo fin d’ora gustare la viva speranza a cui siamo chiamati e abbracciare con gioia la croce, sapendo che l’umile amore immolato è l’unica forza atta a sollevare il mondo. Amen.

Fonte:https://caritasveritatis.blog