Don Paolo Zamengo”Pregare è toccare il cuore di Dio”

Domenica 27 Luglio (DOMENICA – Verde)
XVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C)
Gen 18,20-32   Sal 137   Col 2,12-14   Lc 11,1-13

E così, lungo la strada, dopo aver vissuto la tenerezza,
dopo aver loro insegnato a scegliere la parte buona che è
stare in ascolto come Maria di Betania, quel giorno Gesù
insegnò loro a pregare perché la domanda del discepolo
era stata proprio questa: “Signore, insegnaci a pregare…”.
Forse i discepoli erano affascinati, conquistati e incuriositi da quel pregare di Gesù in silenzio e da
solo in disparte. Forse il suo volto si era fatto luminoso come quello di Mosè sulla montagna e
nessuno osava interromperlo. Ma poi chiesero: “Signore, insegnaci a pregare…”. Anche Giovanni
aveva insegnato a pregare. E insegnalo anche a noi. A noi che oggi abbiamo, così diciamo, troppe
cose da fare.
E Gesù aprì e chiuse il suo insegnamento sulla preghiera con una parola carica ed evocativa:
“Abbà, Padre”, E consegna a noi la parola con cui invocare Dio. Dicono gli esegeti che nella
moltitudine delle preghiere giudaiche non si trova un solo esempio, non uno, che invoca Dio come
Abbà, Padre.
L’insegnamento di Gesù sulla preghiera risveglia soprattutto un atteggiamento di serena fiducia, di
confidente sicurezza. Evoca infatti un volto, quello di un Padre. E un altro ancora: quello dell’amico
alla cui porta puoi bussare di notte, a mezzanotte, quando la porta è chiusa e tutti dormono,
perché ti presti tre pani.
Nella preghiera cristiana vivono queste due situazioni umane: da un lato il confessato bisogno, la
dichiarata povertà, la confessata piccolezza e, insieme, la mai spenta, mai arresa, ostinata
confidenza che ci fa parlare con Dio, e ce lo fa chiamare “Padre”. Sono i due atteggiamenti del
cuore che abbiamo sorpreso anche nella affascinante preghiera di Abramo: “Vedi come ardisco
parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere”.
E non potrebbe iniziare che così ogni nostra preghiera! “…Io che sono polvere e cenere”. È la
preghiera di un povero che è curvato”: così si esprime il primo versetto del salmo 102. “Curvato”,
quasi a dire che, quando un uomo prega, non di pone in un posto elevato, ma indugia e sta
inchinato: “Dal profondo grido a te …” “Io che sono polvere e cenere”.
Ma il trattato dei rabbini delle “Benedizioni” dice che essere curvato non esprime solo uno stato di
prostrazione, ma anche un momento di incontro. Sentite. “Preghiera di un uomo curvato: come un
uomo che parla a un orecchio del suo compagno e questo l’ascolta. C’è forse un Dio più vicino di
questo, che è vicino alla sua creatura, quanto la bocca all’orecchio?”. Ricordiamola, pur
purificandola da ogni suo antropomorfismo, questa riflessione rabbinica: l’orecchio di Dio vicino al
sussurro povero della bocca dell’uomo.
E perché ognuno di noi, ne sono certo, già è rimasto affascinato, l’orecchio di Dio è vicino alla
preghiera dell’uomo se il suo cuore è simile a quello di Abramo, solidale con i peccatori, come il
cuore di Abramo. A Dio è gradito questo non slegare la nostra sorte da quella degli altri, questo
non volere essere salvi da soli.
Una cosa Dio ci rimprovera: è che preghiamo solo per noi, che pensiamo solo a noi stessi, che non
resistiamo e restiamo abbastanza davanti al suo volto in favore degli altri. Infatti così dice Dio per
bocca del profeta: “Ho cercato fra loro un uomo che costruisse un muro e si ergesse sulla breccia
di fronte a me per difendere il paese perché io non lo devastassi, ma non l’ho trovato” (Ez 22,30).

Questo è il lamento di Dio. Solo se il Dio davanti al quale stiamo è nostro Padre possiamo avere il
coraggio di una preghiera che chiede, che cerca e che bussa, insistentemente, senza mai cessare,
una preghiera che non ha paura di osare, di sperare contro ogni speranza, come quella di Abramo.