Don Marco Ceccarelli Commento XXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C)

Domenica 24 Agosto (DOMENICA – Verde)
XXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C)
Is 66,18-21   Sal 116   Eb 12,5-7.11-13   Lc 13,22-30

Di Don Marco Ceccarelli

Testi di riferimento: Sal 6,9; 107,3; Is 2,2-3; 25,6-8; 43,6; 49,20; 54,3; 60,1-7; Mal 1,11; Mt 7,13-
14.21-23; 11,12; 22,14; 24,22; 25,26; Lc 6,46; 14,15.26-30; 16,8-10; 18,26-27; 22,28-30.44; Gv
6,37; 10,9; 14,6; At 2,47; 14,22; Rm 9,31; 1Cor 1,18; 9,24-27; Ef 2,8-9; Fil 2,12-13; Col 1,29; 4,2;
1Tm 1,18-19; 4,10; 6,12; 2Tm 4,7; Eb 4,11; 10,34; 12,1.4; 2Pt 1,10-11; Ap 21,13

  1. Di cosa si sta parlando?
  • Il brano di Vangelo odierno ruota intorno alla domanda «sono pochi quelli che sono salvati?» (v.
    23); una questione che ha certamente suscitato e continua a suscitare l’interesse di tanti, teologi o
    non. L’espressione “essere salvati” ci offre la possibilità di capire meglio quello che si sta dicendo
    già da diverse domeniche. Siamo sempre nell’ottica di quel “ereditare la vita eterna” (Lc 10,25) che,
    come dicevamo, ha a che fare innanzitutto con questa vita, la vita attuale, terrena. Si entra in possesso della vita, quella vera, quella eterna qualitativamente, nel momento in cui si comincia a far
    parte del regno di Dio. Quella casa per entrare nella quale si deve attraversare una porta stretta è il
    regno di Dio, come esplicitato nel v. 29. Essere salvati significa essere entrati nel regno di Dio; e ci
    si entra ora, in questa vita, nel momento in cui si entra a far parte della comunità cristiana: «Il Signore aggiungeva ogni giorno ad essa [la comunità cristiana] coloro che erano salvati» (At 2,47). Si
    è salvati, si è pervenuti al possesso della vita, nel momento in cui si è accolto il regno di Dio che si
    è fatto presente nella persona di Cristo.
  • D’altro lato la salvezza ottenuta con la fede nel vangelo non è mai definitiva finché non si è entrati
    nel regno celeste. La fede non è un dato acquisito una volta per sempre. E la vita ci insegna che si
    possono vincere tante battaglie, ma poi perdere la guerra; il che sarebbe una tragedia. Allora occorre
    sempre mantenersi in uno stato di “combattimento” per non perdere ciò che si è ricevuto.
  1. A chi sta parlando Gesù? Va notato che la domanda rivolta a Gesù si riferisce ad un generico “…
    quelli che sono salvati”; e tuttavia Gesù risponde con un discorso rivolto a “voi”. E a questi “voi”
    non viene certamente prospettato un futuro molto roseo. Ci si può chiedere a chi Gesù si stia rivolgendo. La questione mi sembra importante in funzione di una giusta interpretazione. Dal contesto si
    potrebbe facilmente intendere che il discorso sia rivolto ai giudei del suo tempo in contrasto con i
    gentili che verranno dai quattro punti cardinali (v. 29). Gesù è cosciente del rifiuto che riceverà a
    Gerusalemme, dove si sta dirigendo, come lui stesso manifesta pochi versetti più avanti (Lc 13,34).
    Però il contrasto potrebbe essere anche quello fra i giudei che abitando nella terra di Israele sono
    stati testimoni oculari di Cristo, e non gli hanno creduto, e i giudei della diaspora che invece, pur
    senza avere visto, entreranno nel regno (cfr. Is 43,6; 54,3; 60,20; At 17,4.11-12). Attraverso questa
    discendenza di Abramo, Isacco e Giacobbe sparsa ai quattro angoli della terra (Is 11,12) anche le
    nazioni pagane saranno benedette (Gen 28,14; vedi prima lettura). Chi entrerà nel regno sarà il nuovo Israele, la Chiesa, che ha accolto Cristo come salvatore. In ogni caso il fattore discriminante non
    è tanto l’appartenere ad Israele o al mondo pagano, quanto il “lottare” (v. 24).
  2. La porta stretta (v. 24).
  • Il termine “lottate” (agonizesthe, e quindi non “sforzatevi”, come appare nella traduzione CEI) è
    preso dall’ambiente sportivo, agonistico. In 1Cor 9,25 il verbo viene usato per indicare la preparazione degli atleti in vista di una competizione. Si tratta di mantenersi continuamente in esercizio, allenamento, per prepararsi ad un obiettivo. La “lotta” (agon), l’allenamento, non è fine a se stesso,
    ma è indirizzato ad una meta (1Cor 9,26); e soprattutto implica un avversario. Si capisce allora perché chi non “lotta”, cioè non si esercita in modo adeguato prima di una gara importante, poi non sarà in grado di affrontarla; cioè “non ne avranno le forze”, “non sarà in grado” (ouk iskysousin) di
    battere l’avversario. Nel vangelo di Luca l’unica altra volta in cui appare agon è 22,44 dove Gesù
    “lotta” nel Getsemani (contro un avversario invisibile) e vince.
  • Si tratta perciò di “esercitarsi” per essere in grado al momento opportuno di superare la prova. La
    mancanza di un obiettivo fa venir meno l’esercizio fisico; e, d’altro lato, se viene meno l’esercizio
    fisico non si consegue l’obiettivo. Ci si rilassa, ci si sbraga, e si perde di vista il compito che ci è
    stato affidato (vangelo di due domeniche fa). La difficoltà di entrare per la porta stretta induce molti
    a rinunciare. L’immagine evoca la situazione d’Israele incapace di entrare nella terra promessa. Il
    deserto era il tempo dell’allenamento, in cui si doveva imparare la fede per affrontare l’ingresso nella terra. Ma al momento decisivo non hanno avuto la forza di farlo.
  • Per passare attraverso una porta stretta bisogna essere stretti, perdere i chili superflui, e soprattutto
    non avere delle protesi aggiuntive che allargano le proprie dimensioni. In altre parole, se si cerca di
    passare per una porta stretta portando con sé tante cose non si riuscirà ad entrare. In Lc 14,26ss. Gesù dice che per essere suoi discepoli occorre rinunciare a tutto, spiegando che chi non lo fa sarà come chi inizia a costruire una torre, ma “non avrà le forze” (ouk iskysen) per completarla (14,30); occorreva infatti “calcolare” prima, cioè prepararsi prima. Rinunciare a tutto perché, comunque, tutto
    ci sarà tolto (Lc 12,20), mentre l’unica cosa necessaria, che non ci viene tolta, è Cristo (Lc 10,42).
    Così dei cristiani a cui si rivolge Eb 10,34 si dice che «hanno accettato con gioia di essere spogliati
    delle loro proprietà, sapendo di possedere una proprietà migliore e duratura». Rinunciare a tutto per
    Cristo, e farlo subito (perché ci sarà un momento in cui sarà troppo tardi per farlo), è la cosa giusta
    da fare. La cosa sbagliata sarebbe pensare di salvarsi semplicemente per avere condiviso una certa
    familiarità con Cristo. Egli non può essere una delle tante cose presenti nella nostra esistenza dalle
    quali cerchiamo la salvezza, la vita, la felicità. Egli è l’unico salvatore, perché è l’unico che libera
    dalla vera causa della nostra infelicità che è il peccato. Pensare che ci si salva, per esempio, soltanto
    perché si appartiene al popolo eletto e quindi, siccome «il Signore è in mezzo a noi, non ci coglierà
    alcun male» (Mi 3,11), sarebbe una iniquità. La frase «non so da dove siete» (v. 25) indica che a
    Cristo non interessa la provenienza genealogica, ma caso mai la provenienza da Dio (cfr. Lc 20,4-
    7).
  • Lo stesso vale per i cristiani, per chi pone la sua sicurezza nel proprio battesimo. È vero che per il
    battesimo veniamo liberati dai nostri peccati e entriamo a far parte del regno. Ma questa condizione
    si può perdere:
    Capita spesso che alcuni pur battezzati in piena salute diano nuovamente inizio al peccato: torna allora a squassarli lo spirito immondo. Si mostra chiaro, in conclusione, che il diavolo nel
    battesimo è scacciato dalla fede del credente; se la fede successivamente dovesse venire meno,
    egli torna (san Cipriano, Ep. 69,XVI,1).
    Perciò anche dopo il battesimo occorre continuare a “lottare per entrare per la porta stretta”, attraverso il buon combattimento della fede (1Tm 6,12), perché il demonio cacciato può sempre ritornare (Lc 11,24-26). Il cristiano nell’attesa di entrare nel banchetto di nozze al ritorno dello sposo non
    ha altro compito che stare con i fianchi cinti (Lc 12,35), lottando per conservare la fede, l’unica cosa indispensabile, per salvare la quale occorre essere disposti a sacrificare tutto il resto. Infatti, «Il
    figlio dell’uomo quando verrà troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8).
  1. Gli operatori di iniquità (v. 27) sono dunque quelli che “fanno la cosa sbagliata”. Visto che essi
    hanno mangiato e bevuto con Cristo, che hanno ascoltato il suo insegnamento (v. 26), avrebbero
    dovuto capire che la salvezza viene solo da lui. Ma in realtà non si vuole capire, perché non si vuole
    rinunciare a nulla, pur sapendo benissimo che tutte le realtà umane non procurano la salvezza. Nella
    parabola di Lc 16,1-8 l’amministratore iniquo è disposto a rinunciare ai suoi privilegi, ai suoi beni,
    alla sua faccia, pur di salvarsi prima che sia troppo tardi; e viene lodato dal padrone (Lc 16,8-9).
    Dunque la salvezza è possibile anche per gli operatori iniqui; ma occorre fare, almeno per una volta,
    e senza perdere ulteriore tempo, la cosa giusta.
  2. Molti o pochi? Innanzitutto va mantenuta ferma la consapevolezza che Dio «vuole che tutti gli
    uomini si salvino» (1Tm 2,4); ma ovviamente, “Dio che ci ha creati senza di noi non ci salverà senza di noi”. Alla domanda se siano molti o pochi quelli che si salvano non c’è altra risposta di quella
    presentata in Eb 4. Come per gli ebrei nel deserto, anche per i cristiani esiste la possibilità di non
    entrare nel regno. «Temiamo dunque che, mentre rimane in vigore la promessa di entrare nel suo
    riposo, qualcuno di voi sia giudicato escluso» (v. 1). Per questo un cristiano non si addormenta sugli
    allori, non perde di vista la meta del suo cammino, lotta per conservare la fede che gli permette di
    obbedire ogni giorno alla volontà di Dio. «Affrettiamoci dunque ad entrare in quel riposo perché
    nessuno cada in quello stesso tipo di disobbedienza» (v. 11).