Don Massimo Grilli Commento XXXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C)

Domenica 16 Novembre (DOMENICA – Verde)
XXXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C)
Ml 3,19-20   Sal 97   2Ts 3,7-12   Lc 21,5-19

Don Massimo Grilli Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano🏠home

Parlare di escatologia è sempre un rischio, perché il discorso viene spesso frainteso e identificato con un genere catastrofico, che annuncia la fine del mondo, la ricompensa dei giusti e la punizione dei malvagi. In realtà, si tratta di ben altro, almeno nel contesto biblico e, specificatamente, evangelico. Si tratta di un’assunzione di responsabilità, perché il mondo si trova su un crinale, oggi più che mai. La sensibilità ecologica (purtroppo ancora in fasce nella nostra teologia e nella predicazione), i pericoli provenienti dalla corsa al riarmo e dall’eccesso tecnologico… ci spingono a guardare in faccia il pericolo imminente e a farcene carico. E non bisogna pensare che si tratti di un affare puramente politico: si dà un’importante valenza religiosa in tutto questo, perché la responsabilità dei cristiani per questa creazione, voluta e amata da Dio, è un impegno etico inderogabile, a cui si è chiamati insieme a tutti gli uomini di buona volontà. Sul crinale della storia, i cristiani hanno un compito, ed è di questo che ci parlano oggi il profeta Malachia e l’evangelista Luca.

Prima lettura: Mal 3,19-20a

Il cosiddetto giorno escatologico del libro di Malachia viene descritto con le immagini tradizionali  del fuoco che brucia i malvagi e del sole di giustizia che premia i buoni. Malachia annuncia la parola di Dio in un momento in cui la situazione del popolo e del clero non era florida. È ancora vivo il ricordo dell’esilio e nel paese che doveva essere ricostruito regnava la sfiducia e lo scetticismo. Il profeta, con un linguaggio apocalittico, esorta alla coerenza della vita, a non separare il servizio reso a Dio da quello reso al prossimo. I riti liturgici o sono una manifestazione delle disposizioni autentiche del cuore oppure diventano menzogna. Un popolo che non è sottomesso alla Torah di Jhwh è un popolo menzognero – anche se composto di sacerdoti e leviti – e la distruzione sarà la sua fine. Un messaggio breve, ma accorato e vero che il Nuovo Testamento riprende alla luce del messia.

Il Vangelo: Lc 21,5-19

Le parole di Gesù sulla città e sul tempio di Gerusalemme riflettono anch’esse un linguaggio apocalittico che occorre comprendere per non arrivare a cogliere messaggi falsati e sterili. Il discorso di Gesù prende l’avvio dall’ammirazione di alcuni membri del popolo per il tempio. Dalle parole dei presenti, Gesù prende lo spunto per scavare più a fondo nella storia di quelle pietre e in ciò che, agli occhi di tutti, appare come splendore indistruttibile, scorgendo anche lutti, menzogne, uccisioni e morte… Che l’interesse di Luca non verta essenzialmente sulla distruzione del tempio è ben comprensibile dalle ammonizioni che seguono. La scomparsa del tempio di Gerusalemme (non si deve dimenticare che il Vangelo è stato scritto dopo quell’accadimento!) costituisce solo l’occasione per un discorso ben più profondo e basilare che potrebbe essere riassunto così: come vivere in tempo di crisi e di distruzione e come comportarsi quando la forza vitale sembra esaurirsi e da tutti gli angoli affiora la forza della decadenza e della corruzione? I discepoli di Gesù sono chiamati a misurarsi con un tempo nel quale le garanzie visibili vengono meno (il tempio è una tra le più importanti) e a fare i conti con una fede spoglia di sovrastrutture, una fede che vive solo grazie all’autenticità e all’obbedienza.

Le persone attorno a Gesù non comprendono a fondo il discorso: le loro domande sul momento e sui segni degli eventi annunciati denunciano una percezione limitata e, allo stesso tempo, deviante perché si proietta alla fine ciò che si richiede oggi. Luca, invece, conduce il lettore a comprendere le istruzioni di Gesù da un altro punto di vista: il pericolo di falsi profeti, le guerre, le catastrofi… sono considerazioni valide in ogni tempo. L’istruzione non concerne, pertanto, il momento finale, ma il tempo della chiesa, perché in ogni epoca decadimento e cinismo, persecuzioni e guerre, immoralità e ingiustizie… pongono il cristiano su un crinale. In questo senso, il cammino di chi è chiamato ad assistere alla fine non diverge essenzialmente dal cammino di chi lo ha preceduto. Il discorso apocalittico fa emergere una situazione che è perennemente attuale, in quanto appartiene alla condizione umana. Calamità, persecuzioni… sono le realtà storico-sociali in cui il cristiano è chiamato a vivere il suo kairós, la sua chiamata e la sua fede. Esiste un crinale storico su cui l’uomo è destinato a camminare e a rispondere. La tormenta è il luogo in cui il credente vive la sua fede, alla maniera del Figlio dell’uomo, che non ha disdegnato di camminare e annunciare il Regno sotto la cappa del cinismo e della decadenza, della persecuzione e della morte. Come vivere, dunque, sul crinale della storia? Qual è il compito del cristiano? Questo è ciò di cui Luca intende occuparsi.

Nel breve stralcio del discorso proposto in questa domenica, soprattutto due mi sembrano le strade tracciate dalla Parola per chi vuol rimanere fedele. La prima esortazione è un richiamo a non lasciarsi ingannare e la seconda concerne la perseveranza nella persecuzione.

Il pericolo di inganno proviene dalla predicazione dei falsi profeti, che Luca non identifica con i falsi messia che emergevano qua e là nel mondo giudaico, ma con dei discepoli appartenenti alla stessa comunità cristiana, i quali – forse a motivo della difficile situazione presente – facevano false profezie sulla parusia imminente. Il discorso non è nuovo nella Bibbia. Già i profeti classici si erano cimentati con le illusioni diffuse tra il popolo dai falsi profeti. Isaia manifesta egregiamente ciò che il popolo si aspetta: non fateci profezie sincere; dite cose allettanti, profetizzate illusioni (30,10). Troppo pesante è il fardello della vita perché l’uomo possa fare a meno di falsi profeti e illusionisti di ogni tipo. Troppo difficile possedere una fede nuda, spoglia dell’eccezionalità e delle rassicurazioni. Il monito di Gesù mette l’accento sull’unica Parola che deve guidare la vita del discepolo.

Il secondo avvertimento concerne la perseveranza nelle tribolazioni e nelle persecuzioni: con la perseveranza guadagnerete le vostre vite. La tragedia e la grandezza della missione, così come l’avevano sperimentata i profeti classici, e soprattutto Geremia, era legata proprio alla perseveranza. Il profeta è essenzialmente l’uomo della perseveranza, con una duplice fedeltà: a Colui che è all’origine della Parola e al popolo che ne è il destinatario. Il profeta vive questo suo essere-in-relazione come la sua autentica vocazione, la sua dignità, ma anche il suo tormento, perché porta sulla sua pelle le persecuzioni e gli oltraggi che ne derivano. La tentazione di abbandonare è forte, quando la strada si fa difficile. Anche Geremia ne fu tentato: mi dicevo, non penserò più a lui, non parlerò più a suo nome (Ger 20,9). Ma il legame con Dio rimase il suo punto fermo.

Colpisce l’importanza che il Nuovo Testamento riserva alla perseveranza. Avere fede comprende il momento della fedeltà e una fede che non diventa perseveranza non può definirsi autentica. Ha scritto Magrassi: «Tutti sono capaci dello slancio di un momento. Quando si ha vent’anni è relativamente facile dire: “Eccomi Signore!”… Più difficile è, invece, ripeterlo ogni mattina, nonostante il logorio della vita, non dico con lo slancio sensibile che contrassegna sempre gli inizi, ma con una fedeltà a tutta prova, e con una maggior profondità spirituale. Questo non è di tutti e, soprattutto, non sembra del nostro tempo».

Luca parla della perseveranza «quando vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori per causa del mio nome». Viene alla mente la testimonianza di Policarpo, quando entrò nello stadio, davanti al proconsole. «Sei tu Policarpo?». Egli annuì. Allora il proconsole cercò di salvarlo e gli disse: «Pensa alla tua età… Giura e ti pongo in libertà. Maledici Cristo!». E Policarpo rispose: «Sono ottantasei anni che lo servo e non mi ha fatto nessun torto. Come posso bestemmiarlo?».

Questi esempi sembrano così lontani dall’esperienza attuale della fede nel mondo occidentale. Eppure, anche oggi risuona l’appello. In mezzo al perbenismo e al cinismo, alla decadenza e alla corruzione… sul crinale della storia, il cristiano è chiamato a testimoniare altre strade e la verità di Dio.