Padre Roberto Pasolini”L’universalità della salvezza”III meditazione di Avvento

III meditazione di Avvento Una speranza senza condizioni

Di Padre Roberto Pasolini

Nelle prime due meditazioni di questo Avvento abbiamo contemplato la Parusia del Signore, il suo ritorno glorioso alla fine dei tempi, imparando a vivere sotto un cielo paziente che non si stanca di manifestare fiducia nell’umanità. Abbiamo poi riflettuto sulla responsabilità di ricostruire insieme la casa del Signore, riconoscendo che ogni autentico rinnovamento della Chiesa passa attraverso la capacità di accogliere le differenze senza cedere all’illusione dell’uniformità, portando insieme il peso della comunione anche quando le voci non si accordano immediatamente. Ora, mentre ci avviciniamo al Natale e alla conclusione del Giubileo desideriamo volgere lo sguardo a un terzo movimento della grazia: la manifestazione universale della salvezza. Non è senza significato che la Porta Santa venga chiusa proprio il 6 gennaio, solennità dell’Epifania del Signore. Nel giorno in cui la Chiesa celebra la manifestazione di Cristo a tutte le genti, si compie anche il cammino giubilare con la chiusura della Porta Santa. La coincidenza è significativa: mentre una porta visibile si richiude, si afferma con forza che la salvezza di Cristo resta definitivamente aperta a tutti. Sia il Giubileo sia il Natale del Signore ci pongono davanti alla stessa sfida: riconoscere la venuta di Cristo nella nostra umanità come una luce da accogliere, dilatare e offrire al mondo. In gioco c’è la cattolicità della Chiesa, nel suo duplice e inscindibile significato: da una parte, il possedere la pienezza di Cristo; dall’altra, l’essere inviata alla totalità del genere umano, senza eccezioni né esclusioni. È questa la speranza che vogliamo contemplare: una salvezza realmente universale.

  1. La luce vera
    Per incamminarci verso la festa dell’Epifania, è utile recuperare il modo in cui il quarto vangelo presenta il mistero dell’Incarnazione. A differenza di Luca, che racconta la nascita di Gesù attraverso la concretezza degli eventi – la mangiatoia, i pastori, il canto degli angeli – Giovanni alza lo sguardo e osserva la venuta del Verbo dall’alto, come l’irruzione nel mondo di una luce vera. Non una luce qualsiasi, ma quella che «illumina ogni uomo» (Giovanni 1,9), capace di svelare non solo il mistero di Dio, ma anche quello dell’essere umano. È un’intuizione di grande forza: la luce di Cristo si manifesta come luce vera perché è capace di illuminare, chiarire e orientare l’intera complessità dell’esperienza umana. Non cancella le domande, i desideri e le ricerche dell’uomo, ma li mette in relazione, li purifica e li conduce verso un senso più pieno. Tuttavia, come lo stesso Giovanni non manca di sottolineare, questa luce non è accolta spontaneamente. Anzi, il suo apparire suscita in noi una resistenza inattesa e dolorosa. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto (Giovanni 1,9-11). Come è possibile? Il mondo è stato fatto per mezzo del Verbo, eppure non lo riconosce. Il Verbo viene tra i suoi, ma i suoi non lo accolgono. Questo paradosso attraversa tutto il vangelo di Giovanni: la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre oppongono resistenza. Perché accade questo? Cosa rende l’uomo così refrattario alla luce che viene a salvarlo? La risposta la troviamo nel dialogo notturno tra Gesù e Nicodèmo, quando il Maestro spiega con lucidità le ragioni profonde di questo rifiuto. La luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio (Giovanni 3,19-21). Il problema non è la luce, che per sua natura illumina e vivifica, ma la nostra disponibilità ad accoglierla. La luce è necessaria e bella, ma anche esigente: smaschera le finzioni, mette a nudo le contraddizioni, costringe a riconoscere ciò che preferiremmo non vedere. Per questo spesso la evitiamo, rifugiandoci nella sicurezza delle tenebre che ci proteggono. È importante notare che Gesù non contrappone chi fa il male a chi fa il bene, ma chi fa il male a chi fa la verità. Per accogliere la luce dell’Incarnazione non è necessario essere già buoni o perfetti, ma iniziare a fare verità nella propria vita: smettere di nascondersi e accettare di essere visti per ciò che si è. L’Incarnazione è liberante proprio perché spezza ogni moralismo e ci dice che a Dio interessa più la nostra verità che una bontà di facciata. Preparare la strada del Signore significa, in fondo, questo: camminare nella verità, con sincerità e senza paura. Nei giorni del Natale è naturale che si moltiplichino gli inviti alla bontà: richiami alla carità, alla generosità, all’accoglienza. Sono parole giuste e necessarie, che appartengono al lessico della nostra fede. E, tuttavia, in questo Natale segnato dal Giubileo, alla Chiesa è chiesto forse qualcosa di ancora più essenziale. Non tanto di aggiungere nuove esortazioni, quanto di compiere un passo più profondo: avviare un cammino di maggiore verità. Fare verità, infatti, non significa esibire una purezza morale o rivendicare una coerenza impeccabile. Significa piuttosto accettare di presentarsi con sincerità, riconoscendo anche le nostre resistenze, le nostre fragilità, persino la sfiducia che talvolta abita il cuore quando ci scopriamo deboli. È un gesto umile e insieme coraggioso: mostrarsi al mondo non con una facciata di solidità, ma con l’onestà di chi è consapevole di avere bisogno di essere salvato. Una Chiesa che intraprende questo cammino non diventa più fragile, ma più credibile. Non perde la propria identità, ma la lascia emergere nella sua forma più evangelica: quella dell’autenticità. Il mondo non attende da noi l’immagine di un’istituzione senza crepe, né l’ennesimo discorso che indica ciò che dovrebbe essere fatto. Ha bisogno di incontrare una comunità che, pur nelle sue imperfezioni e contraddizioni, vive davvero alla luce di Cristo e non ha paura di mostrarsi per quello che è. Questo sarebbe il vero gesto forte, la vera Epifania: manifestare Cristo non nonostante la nostra fragilità, ma proprio attraverso di essa, perché è lì che risplende con più forza la sua grazia.
  2. Chi cerca trova
    Un modo singolare di essere veri, preparando – anzi percorrendo – la via del Signore, è quello dei Magi, che si mettono in cammino da lontano seguendo la legge più esigente di tutte: la legge del desiderio. In questo modo, i Magi ci mostrano che per accogliere la luce del Natale è necessaria una certa distanza, talvolta persino una rincorsa. Una delle più comuni forme di cecità nasce dall’abitudine a guardare la realtà troppo da vicino, prigionieri di giudizi scontati e di interpretazioni troppo consolidate. Partire da lontano, a volte, permette di vedere meglio le cose: con uno sguardo più libero, più profondo, più capace di sorpresa. Questa dinamica non riguarda soltanto chi si trova ai margini o è in ricerca, ma coinvolge anche chi vive stabilmente al centro della vita ecclesiale e ne porta le responsabilità. La familiarità quotidiana con ruoli, strutture, decisioni e urgenze può, col tempo, restringere lo sguardo. Si rischia così di riconoscere con fatica i segni nuovi attraverso cui Dio si fa presente nella vita del mondo. Non di rado è proprio ciò che proviene “da lontano” – una voce periferica, una domanda inattesa, una ferita del mondo – a restituire profondità e verità allo sguardo. Nel giorno di Natale celebriamo che la luce è entrata nel mondo; nell’Epifania ricordiamo che questa luce non si impone, ma si lascia riconoscere. È una luce vera e potente, ma si manifesta dentro una storia ancora segnata dall’oscurità e dalla ricerca. Epifania significa infatti manifestazione: non un bagliore che acceca, ma una presenza che si offre a chi è disposto a muoversi. Non tutti la vedono allo stesso modo, non tutti la riconoscono nello stesso tempo. La luce di Cristo si lascia incontrare da chi accetta di uscire da sé, di mettersi in cammino, di cercare. Questo vale anche per il cammino della Chiesa. Non tutto ciò che è vero appare subito chiaro, né ciò che è evangelico risulta immediatamente efficace. A volte la verità chiede di essere seguita prima ancora di essere pienamente compresa. È quanto accade ai Magi, che non avanzano sostenuti da certezze consolidate, ma da una stella fragile, sufficiente però a metterli in viaggio. Giunti a Gerusalemme, i Magi non hanno timore di esporre le domande che restano nei loro cuori. Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo (Matteo 2,2). Il loro movimento afferma una verità decisiva: per incontrare il volto del Dio fatto uomo è necessario mettersi in cammino. Questo vale per ogni credente, ma assume un peso particolare là dove la fede si intreccia con la responsabilità di custodire, guidare e discernere. Senza un desiderio che resta vivo, anche le forme più alte del servizio rischiano di diventare ripetitive, autoreferenziali, incapaci di sorpresa. Nella vita della Chiesa, come in quella di ogni persona, si riconosce davvero solo ciò che si continua a cercare. Il desiderio precede la comprensione e tiene aperto il cammino quando le risposte non sono ancora chiare. I passaggi più fecondi della storia ecclesiale non nascono da strategie ben calibrate, ma da cuori che non smettono di interrogarsi e di mettere le proprie domande in dialogo con la vita reale del mondo. Quando questo desiderio resta vivo, l’incontro con Dio sorprende e supera le attese; quando si spegne, anche i segni più evidenti rischiano di non essere più riconosciuti. La stella che guida i Magi diventa così il segno dei richiami discreti con cui Dio continua a farsi presente nella storia. È un segno che non impone risposte, ma suscita domande; non offre certezze immediate, ma apre un cammino. I Magi non conoscono le Scritture di Israele, eppure sanno leggere il cielo: questo ricorda che Dio parla anche attraverso vie inattese, esperienze periferiche, interrogativi che nascono dal contatto con la realtà e attendono di essere ascoltati. I Magi rendono visibile la promessa evangelica: «Chi cerca trova» (Matteo 7,8). Ma cercare è possibile solo se si accetta di restare in ricerca, riconoscendo il proprio bisogno e custodendo uno spazio di attesa. È così che si prepara la via del Signore: non chiudendo le domande troppo in fretta, ma lasciandole diventare il luogo in cui Dio viene a incontrarci.
  3. Rimanere seduti
    Esiste un modo sottile, e proprio per questo pericoloso, di sottrarsi alla ricerca di Cristo: non opporsi, ma restare fermi. Non si tratta di rifiutare apertamente né di negare, bensì di non mettersi in movimento. È la tentazione di sistemarsi in una posizione che appare rassicurante, fatta di certezze e di abitudini consolidate, ma che col tempo rischia di diventare una forma di immobilità interiore. Un luogo che sembra proteggere, mentre lentamente isola, spesso senza che ce ne accorgiamo. Il racconto evangelico dei Magi illumina con grande chiarezza proprio questa possibilità. Alla notizia della nascita di un re, Erode resta turbato, e con lui tutta Gerusalemme. Gli scribi e i capi dei sacerdoti svolgono con scrupolo il loro compito: consultano i testi, offrono interpretazioni corrette, forniscono risposte esatte. Anche Erode si mostra attento: interroga, calcola, pianifica. Tutti appaiono coinvolti, ma nessuno compie il passo decisivo: mettersi in cammino verso Betlemme, accettare il rischio e la sorpresa di ciò che potrebbe accadere. Preferiscono delegare ai Magi il compito di andare, riservandosi il diritto di essere informati sugli sviluppi. È l’atteggiamento di chi vuole sapere tutto senza esporsi, restando al riparo dalle conseguenze di un coinvolgimento reale. Questa dinamica ci riguarda da vicino. Viviamo immersi in un flusso continuo di informazioni: ci documentiamo, analizziamo, leggiamo molto. Eppure, a questa abbondanza di sapere raramente corrisponde un coinvolgimento reale. Sappiamo tante cose, ma restiamo distanti. Osserviamo la realtà senza lasciarci toccare, protetti da una posizione che ci mette al riparo dall’imprevisto. Così l’informazione diventa una scorciatoia ingannevole: ci fa sentire partecipi, mentre in realtà ci permette di restare fermi. Per la Chiesa questo rischio assume contorni particolarmente delicati. È possibile conoscere bene la dottrina, custodire la tradizione, celebrare con cura la liturgia e, nondimeno, restare fermi. Come accade agli scribi di Gerusalemme, anche noi possiamo sapere dove il Signore continua a farsi presente – nelle periferie, tra i poveri, nelle ferite della storia – senza trovare la forza o il coraggio di muoverci in quella direzione. L’Epifania ci ricorda che solo chi si mette in cammino incontra la regalità di Cristo. Solo chi accetta il rischio della ricerca può giungere all’adorazione del Verbo fatto uomo. Chi resta seduto, protetto dalle proprie certezze, finisce per perdere l’appuntamento con la manifestazione di Dio, anche quando essa è vicina e chiaramente indicata dalle Scritture. La luce vera può essere accolta solo nella misura in cui accettiamo, poco alla volta, di uscire dalle nostre zone d’ombra, anche quando esse hanno l’aspetto rassicurante della competenza, dell’istituzione o di una sicurezza religiosa ormai acquisita.
  4. Alzarsi e risplendere
    Diverso da quello di Erode e della sua corte è l’atteggiamento dei Magi: viaggiatori intrepidi che, pur senza conoscere le Scritture di Israele, sembrano incarnarne lo spirito più autentico. Già i profeti, nel tempo difficile del ritorno dall’esilio, avevano esortato il popolo a rimettersi in cammino, quando le speranze di un futuro diverso apparivano ancora lontane e quasi impossibili. Nel cosiddetto libro della consolazione di Isaia, proclamato dalla liturgia nella solennità dell’Epifania, risuona un imperativo decisivo, che non lascia spazio a esitazioni: Àlzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce… su di te risplende il Signore (Isaia 60,1-2). È questo l’invito a cui Erode non riesce a obbedire e che, invece, mette in moto il viaggio dei Magi. Per incontrare il Signore che si è manifestato nella nostra umanità, il primo passo è sempre quello di alzarsi: uscire dai propri rifugi interiori, dalle proprie sicurezze, dalla visione consolidata delle cose. Alzarsi richiede coraggio. Significa abbandonare la sedentarietà che ci protegge ma ci immobilizza, accettare la fatica del cammino, esporsi all’incertezza di ciò che non è ancora chiaro. I Magi si alzano, lasciano la loro terra, attraversano distanze senza garanzie, guidati solo da un segno tenue e discreto. Non sanno esattamente cosa troveranno, eppure si fidano di quella luce che li precede. Dopo l’invito ad alzarsi, il profeta aggiunge un’indicazione sorprendente: chiede di rivestirsi di una luce che non è ancora pienamente visibile, ma che è già promessa. Si allude a una disposizione interiore: vivere come se la luce stesse arrivando, prima ancora di vederne i segni. Ciò significa custodire la fiducia anche quando le circostanze non la giustificano del tutto, continuare a sperare mentre la notte non è ancora finita. Solo così diventa possibile mettersi in cammino verso qualcosa di nuovo, accettando l’incertezza e persino il rischio della delusione, pur di non restare fermi dove siamo. Dopo essersi alzati e aver accettato di rivestirsi di una speranza che li precedeva, i Magi compiono un gesto ulteriore, forse il più decisivo di tutti. Il cammino, la ricerca, l’attesa non li conducono a un’affermazione di sé, ma a un abbassamento. Il desiderio che li ha messi in movimento trova compimento non nel possesso, ma nell’adorazione. Solo allora il loro viaggio giunge davvero alla meta. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre; si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra (Matteo 2,11). Inginocchiandosi davanti al segno umile e povero del bambino, i Magi scoprono che l’accesso all’altro – diverso, fragile, inatteso – avviene sempre dal basso, mai dall’alto. È nell’abbassamento che la distanza si colma e la diversità diventa abitabile. Non si tratta di rinunciare alla propria identità, ma di consegnarla, aprendola al mistero che l’altro porta con sé. Alzarsi e poi inginocchiarsi: è questo il movimento della fede. Ci si alza per uscire da sé, non per mettersi al centro. E poi ci si abbassa, perché ci si accorge che ciò che incontriamo sfugge al nostro controllo. Questo vale nel rapporto con Dio, ma anche nelle relazioni di ogni giorno. Finché le cose vanno come immaginiamo, rimanere è facile; quando invece l’altro ci sorprende, delude o cambia, restare fedeli alle scelte fatte e all’amore promesso richiede di smettere di imporre il nostro punto di vista e di imparare ad ascoltare davvero. Per la Chiesa questo doppio movimento – alzarsi e prostrarsi – è essenziale. Essa è chiamata a muoversi, uscire, andare incontro alle persone e alle situazioni che le sono lontane. Ma anche a sapersi fermare, abbassare lo sguardo, riconoscere che non tutto le appartiene né può essere controllato. Solo così il dono della salvezza può diventare universale: nella misura in cui la Chiesa accetta di lasciare le proprie sicurezze e di guardare con rispetto la vita
  5. degli altri, riconoscendo che anche lì, spesso in modi inattesi, può emergere qualcosa della luce di Cristo.
  6. Trovare se stessi
    Quando i Magi entrano nella casa e vedono il bambino con Maria sua madre, si trovano davanti a qualcosa che supera le loro attese. Si inginocchiano e aprono i loro scrigni, offrendo oro, incenso e mirra. Con questi doni confessano in quel bambino la presenza di Dio, la sua regalità e la sua piena condivisione della nostra umanità, segnata anche dalla sofferenza e dalla morte. Ma, mentre compiono questo gesto, accade qualcosa di inatteso: non scoprono soltanto chi è quel bambino, cominciano a intuire chi sono loro.
    Nel volto di Gesù, il Dio fatto uomo, i Magi intravedono che quella stessa dignità è promessa anche alla loro vita. Se in quel bambino Dio si rivela come Re, allora anche la vita umana è chiamata a una grandezza che non passa dal potere, ma dalla cura e dal servizio. Se Dio ha scelto di abitare la nostra carne, allora ogni vita umana porta in sé una luce, una vocazione, un valore che non può essere cancellato. I doni che i Magi offrono diventano così uno specchio: parlano di Dio, ma rivelano anche ciò che l’uomo è chiamato a diventare.
    Con la visita dei Magi, il mistero dell’Incarnazione mostra tutta la sua forza universale. Non siamo venuti al mondo soltanto per sopravvivere o per attraversare il tempo nel modo migliore possibile. Siamo nati per accedere a una vita più grande: quella dei figli di Dio. I Magi sono partiti cercando una stella e hanno trovato Cristo; ma cercando Cristo hanno trovato anche se stessi.
    Hanno scoperto che, pur venendo da lontano e senza conoscere le Scritture, anche nella loro umanità brillava una luce che attendeva solo di essere riconosciuta e portata alla luce.
    Forse la Chiesa è chiamata, oggi più che mai, a fare soprattutto questo: porgere al mondo la luce di Cristo. Non come qualcosa da imporre o da difendere, ma come una presenza da offrire, lasciando che ciascuno possa avvicinarsi a essa attraverso un cammino simile a quello dei Magi. Essi sono partiti dal desiderio, si sono messi in viaggio, hanno attraversato domande e incertezze e, solo alla fine, hanno riconosciuto Cristo e, davanti a lui, hanno scoperto anche se stessi.
    In questa prospettiva, la missione non consiste nel forzare l’incontro, ma nel renderlo possibile. Porgere la luce significa custodire lo spazio della ricerca, permettere che il desiderio si metta in movimento, accompagnare senza anticipare le risposte. Così l’incontro con Cristo non cancella l’umanità di chi lo cerca, ma la porta alla luce e la compie.
    Se avremo il coraggio di offrire al mondo una testimonianza così semplice e luminosa, potrebbe accaderci di fare esperienza di ciò che il profeta Isaia annuncia alle rovine di Gerusalemme: una città chiamata a diventare luogo di attrazione per tutti i popoli.
    Cammineranno le genti alla tua luce,
    i re allo splendore del tuo sorgere.
    Alza gli occhi intorno e guarda:
    tutti costoro si sono radunati, vengono a te.
    I tuoi figli vengono da lontano,
    le tue figlie sono portate in braccio.
    Allora guarderai e sarai raggiante,
    palpiterà e si dilaterà il tuo cuore,
    perché l’abbondanza del mare si riverserà su di te,
    verrà a te la ricchezza delle genti (Isaia 60,3-5).
    Una Chiesa che offre a tutti la presenza di Cristo non si appropria della sua luce, ma la riflette. Non si pone al centro per dominare, ma per attrarre. E proprio per questo diventa spazio di incontro, dove ciascuno può riconoscere Cristo e, davanti a lui, ritrovare il senso della propria vita.
    Questa prospettiva ci costringe a rivedere molte delle nostre abitudini missionarie. Spesso immaginiamo che evangelizzare significhi portare qualcosa che manca, colmare un vuoto, correggere un errore. L’Epifania indica un’altra via: aiutare l’altro a riconoscere la luce che già lo abita, la dignità che già possiede, i doni che già custodisce. Non siamo noi a “dare” Cristo al mondo, come se ne avessimo l’esclusiva. Noi siamo chiamati a renderne visibile la presenza con tale chiarezza e verità che ciascuno possa riconoscere in lui il senso della propria esistenza.
    Questo non relativizza la verità di Cristo né riduce il Vangelo a una generica valorizzazione dell’umano. Al contrario, prende sul serio la cattolicità della Chiesa nel suo significato più profondo: custodire Cristo per offrirlo a tutti, con la fiducia che in ogni persona siano già presenti bellezza, bontà e verità, chiamate a compiersi e a trovare in lui il loro senso più pieno. La luce vera del Natale «illumina ogni uomo» proprio perché è in grado di svelare a ciascuno la propria verità, la propria chiamata, la propria somiglianza con Dio.
    Se così fosse, il Natale che si intreccia alla conclusione del Giubileo potrebbe
    aver acceso una speranza senza condizioni non solo nella Chiesa, ma anche nel mondo. La Chiesa può rallegrarsi di aver ritrovato Cristo come centro; il mondo, incontrando la nostra fragile testimonianza, potrebbe essersi sentito incoraggiato a far emergere la propria umanità, a offrire i propri doni e a riconoscere la propria dignità davanti a Dio.
    Sarebbe questo il segno più eloquente di una Chiesa fedele alla sua
    vocazione: non trattenere la luce per sé, ma lasciarla risplendere perché la vita nuova, già seminata nel cuore di ogni uomo e di ogni donna, possa finalmente germogliare e portare frutto.

    Preghiamo
    O Dio, che con la guida della stella, hai rivelato alle genti il tuo Figlio unigenito, conduci benigno anche noi, che già ti abbiamo conosciuto per la fede, a contemplare la bellezza della tua gloria. Per Cristo nostro Signore.
    p. Roberto Pasolini, OFM Cap.
    Predicatore della Casa Pontificia

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