XXXII Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) (10/11/2024) Liturgia: 1Re 17, 10-16; Sal 145; Eb 9, 24-28; Mc 12, 38-44
Seguendo il racconto del primo evangelista, siamo ormai giunti a Gerusalemme e, anche osservando le pagine che rimangono nella narrazione di Marco, ci accorgiamo come la vicenda terrena di Gesù stia per giungere alla sua conclusione, e dunque al suo compimento. Leggiamo oggi gli ultimi versetti del capitolo dodici. Il capitolo tredici riporta i detti escatologici di Gesù, mentre nel quattordicesimo inizia il grande racconto del mistero pasquale del Cristo, che copre ben tre capitoli sui sedici che compongono lo scritto del primo evangelista.
Nella città del re davidico, il Signore si cimenta in una serie di discussioni con tutte le varie correnti che interessavano il panorama religioso del tempo: farisei, sadducei, sacerdoti e, oggi, gli scribi.
Parole di condanna, di rimprovero, di correzione giungono da questo predicatore della Galilea, che non teme di svelare certe contraddizioni. Forse solo uno sguardo continuamente rivolto al Padre ed un cuore profondamente allenato all’ascolto della volontà di Dio erano capaci di vederle e, sopratutto, di denunciarle, non per sterile rivalsa polemica o per un anarchico desiderio di ribaltare l’autorità costituita (ricordiamo come tutta la predicazione di Gesù non sia mai stata orientata all’identificazione di sé con un capopopolo, simile ai numerosi sorti nella Galilea del I secolo a.C.), ma per amore di quella Verità che rende liberi, permettendo all’uomo di seguire Cristo, riconoscendolo come vero mediatore tra Dio e l’uomo: “Conoscerete che Io Sono e che non faccio nulla da me stesso, ma parlo come il Padre mi ha insegnato” (cfr. Gv 8, 28-31).
Fatta questa parentesi introduttiva, proviamo a scendere un poco nel dettaglio del brano di questa domenica. Gesù critica di fonte alla folla l’atteggiamento degli scribi, che erano i depositari dei rotoli della Scrittura e dedicavano la propria intera esistenza alla lettura, al commento e all’esegesi della Legge. Queste figure, divenute sempre più importanti nell’Israele post-esilico a seguito della crescente importanza data alla lettura orante della Torah (ricordiamo a tal proposito l’episodio emblematico del ritrovamento dei rotoli nel tempio a seguito dei lavori fatti eseguire dal re Giosia secondo il racconto di 2Re 22-23), correvano spesso un grande rischio, ovvero quello di ritenersi giusti in virtù della propria conoscenza e dei riti e gesti compiuti. Dal momento che la Salvezza e la Giustizia erano qualcosa da conquistare, esse si raggiungono tramite atti di conoscenza o di volontà. Il risultato era ben chiaro: chi fa e sa è giusto, tutti gli altri sono destinati alla rovina. Per non parlare di chi non era parte del popolo d’Israele. Tutto questo sommato ad una discreta dose, come sottolineano le parole di Gesù, di narcisismo, superbia e lode di sé (vv. 38-40). Il Maestro in questo contesto capovolge radicalmente la prospettiva nel rapporto con Dio: non abbassando l’asticella, ma alzandola. La giustizia davanti a Dio non la si conquista tramite sforzi ed azioni individuali, ma è il riconoscere la grandezza di un dono, di un’offerta gratuita ed immeritata da parte del Padre, alla quale si risponde non solo con una pratica, con un culto, con una serie di norme, ma con l’offerta della propria stessa vita (anche attraverso pratiche, culti, norme che vengono così recuperati, ma in una prospettiva differente).
Per rispondere all’Amore di Dio riversato nelle nostre vite, come ci insegna e mostra Gesù con la sua stessa esistenza ed oggi con l’immagine della vedova di fronte al tesoro del tempio, non basta offrire a Dio il superfluo, il tempo libero della nostra vita, un parte del cuore, una parte dell’intelligenza, una parte delle energie. La risposta richiesta è secondo la misura della vedova che “ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere” (v. 44).
“Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” scriveva l’autore del Deuteronomio (6,5); “Vi esorto […] a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio”, riprendeva Paolo nell’epistola ai Romani (12,1).
Niente meno che la nostra stessa vita è la misura che il Signore propone a noi, e allora vivremo la Sua stessa vita.
Lascio in conclusione, come ultima provocazione, la frase che un teologo disse poco tempo fa, che, alla luce del vangelo di questa domenica forse possiamo intravvedere nel suo significato più profondo: “La Chiesa non va avanti grazie a volontari, ma vive di offerte sacrificali”.
Fonte:https://www.pievescandiano.it/
