VI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C)
Ger 17,5-8 Sal 1 1Cor 15,12.16-20 Lc 6,17.20-26
Davanti Gesù c’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente ma Gesù proclama queste beatitudini accompagnate da altrettanti guai – ci dice l’evangelista – alzati gli occhi verso i suoi discepoli. Non a tutta la folla ma ai suoi discepoli, quasi ad operare un’ulteriore chiara distinzione tra chi lo potrà seguire e chi non è nelle condizioni idonee. Gesù è il più povero tra i poveri per essere disceso dalla sua condizione divina ed avere assunto la fragilità della condizione umana: molto significativo che per rivolgersi ai suoi debba alzare lo sguardo per guardarli dal basso verso l’alto.
Questa è la cattedra del maestro Gesù: la sua umiltà infinita. Infinita come infinita è la Maestà dalla quale egli discese per riportare la nostra umanità ferita alla gloria originaria nella comunione di Dio padre.
Per questo può valer la pena sopportare la povertà, la fame, le lacrime e la riprovazione degli uomini (ammesso che non sia a rischio la sopravvivenza immediata) piuttosto che ricorrere alla violenza, alla rivendicazione minacciosa, alla strategia dell’odio, perché alla fine sarà il Signore a darci la ricchezza quella vera, insieme al pane quotidiano.
Viviamo nell’oblio più totale degli insegnamenti della storia che è veramente maestra di vita, ma che ha sempre meno discepoli. Le guerre più ‘giuste’ e ‘sacrosante’, hanno mai prodotto qualche effetto positivo di lunga durata? La lotta non violenta di Gandi, i decenni passati in carcere di Nelson Mandela che ha lottato con successo contro l’apartheid, le strategie vincenti di pace di Martin Luther King non ci hanno insegnato nulla?
Le beatitudini proclamate da Gesù, siatene certi, non sono utopiche. Sono molto più utopiche le idee di chi progetta villaggi turistici su terre ferite da migliaia di morti e di deportati.
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