Don Paolo Zamengo “Gesù sulle strade del mondo”

Domenica 27 Aprile (DOMENICA – Bianco)
II DOMENICA DI PASQUA o della Divina Misericordia (ANNO C)
At 5,12-16   Sal 117   Ap 1,9-11.12-13.17-19   Gv 20,19-31

Non sono le porte chiuse, non sono i cuori indecisi
dei discepoli a fermare Gesù: “Stette in mezzo e
disse loro: Pace a voi!”. Gesù ci comunica
un’estrema fiducia perché non si scandalizza per la
pochezza dei suoi. Loro continuano a non credere:
eppure Pietro e l’altro discepolo avevano trovato la tomba vuota; eppure Maria di Magdala aveva
annunciato che lo aveva visto risorto. Ma loro non credevano e se ne stavano a porte chiuse.
Gesù non si arrende: la luce della risurrezione può essere soffocata dal buio dell’incredulità ma Lui non
smette di proporsi, di offrirsi, di stare in mezzo, nonostante tutto. Finché i suoi discepoli rimangono chiusi
dentro la loro casa non lo potranno mai incontrare come risorto. È uno dei capisaldi del magistero di papa Francesco, che proprio in questi giorni ci ha lasciato. Nell’enciclica Evangelii gaudium, 278, scrisse per noi
«La risurrezione di Cristo produce in ogni luogo germi di questo mondo nuovo; e se anche questi germi
vengono tagliati, ritornano a spuntare, perché la risurrezione del Signore ha già penetrato la trama
nascosta di questa storia, perché Gesù non è risuscitato invano».
Dunque è dentro la storia, quando la tenerezza, la bontà, la disponibilità, la cura di gesti quotidiani
esprimono un altro mondo, rispetto al nostro, segnato dall’egoismo, dalla chiusura e dal rifiuto dell’altro.
Gesù è presente e operante vincitore sulla morte.
Anche otto giorni dopo i discepoli si trovano in casa «a porte chiuse». E parlano a Tommaso, che non era
presente di come Gesù aveva vinto la morte, ma si trovavano ancora a porte chiuse. Le porte chiuse sono
una contro-testimonianza rispetto al Vangelo della risurrezione, un Vangelo che apre e ci porta per le
strade del mondo. Una comunità chiusa, separata, sulla difensiva, non sarà mai una testimonianza credibile
della risurrezione.
E invece il Risorto invia gli apostoli per le strade del mondo a portare il suo amore: «A coloro a cui
perdonerete i peccati saranno perdonati». Nell’ultima cena aveva lasciato, come suo testamento, l’invito ai
suoi ad amarsi come Lui li aveva amati; dopo la sua risurrezione, li invita ad essere esclusivamente degli
strumenti di riconciliazione, dentro le vicende umane.
Dunque il segno distintivo della Chiesa, come mandato del Risorto, è la “pratica” dell’amore come perdono
e apertura di nuove relazioni per il futuro. E la remissione dei peccati non è tanto un potere giuridico dato
alla Chiesa, piuttosto è un dono dello Spirito Santo: «Soffiò e disse loro: “Ricevete lo Spirito Santo”».
Dal corpo di Gesù, inchiodato sulla croce e trafitto, è sgorgato il dono dello Spirito, dell’amore di Dio, dato
proprio da quel corpo martoriato, corpo che ha donato la sua vita per amore degli uomini, a partire dai
nemici: gesto di totale riconciliazione e pace. Lo sguardo di fede al crocifisso risorto deve necessariamente
tradursi in uno sguardo di compassione e in un abbraccio verso tutti i più lontani e gli smarriti: così si dona
la fede della Chiesa nel Risorto.
All’inizio della sua missione, Gesù aveva rivelato, attraverso le Scritture che Egli veniva a compiere, il
contenuto di quel «come»: «Mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri
la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del
Signore» (Lc 4,18-19). Come è stato mandato Lui, così siamo mandati anche noi: non ad accusare, non a
condannare non a precludere ogni possibilità, ma a perdonare e a riconciliare. Soltanto questo può farci
stare nella pace: «Stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi!”».
Trovo molto bello il fatto che la notizia della risurrezione di Cristo dai morti non è stata affidata ai teologi
ma a persone che hanno fatto fatica a credere: i discepoli a porte chiuse il giorno della risurrezione e

Tommaso che proclama la sua incredulità. Perché non è la fede di coloro che guardano tutti dell’alto che
può aiutare chi, invece, si trova ancora in ricerca. I Vangeli ci fanno toccare con mano le prove e la fatica di
non vedere da parte di coloro che sono stati con Gesù: difficoltà che appartengono anche a noi. Gesù ha
voluto scegliere uno di noi, un povero padre, travagliato dalla sofferenza del proprio figlio epilettico, ma
che esprime in maniera sfolgorante: «Io credo; aiuta la mia incredulità!» (Mc 8,24).