Domenica 3 Agosto (DOMENICA – Verde)
XVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C)
Qo 1,2;2,21-23 Sal 89 Col 3,1-5.9-11 Lc 12,13-21
Di Don Massimo Grilli 🏠
Le parole radicali di Qohelet sulla vanità di ogni cosa accostate al tema lucano delle ricchezze costituiscono una miscela esplosiva, che parrebbe a prima vista poco cristiana, oltre che poco credibile. E tuttavia, se non ci si lascia afferrare subito dalle emozioni immediate, si percepisce che è in gioco uno degli aspetti fondamentali della vita del credente. Siamo così abituati a maneggiare monete false che, quando ci capitano quelle vere, facciamo fatica a riconoscerle. Le letture odierne presentano vivande difficili da digerire, ma necessarie se si vuole un cibo per adulti e non per bambini, come uomini e come credenti.
Prima lettura: Qoh 1,2; 2,21-23
Havel havalim / «nulla di nulla» è il ritornello che percorre sin dai primi versetti il libro di Qohelet, uno di quei libri biblici destinati a dare continuo scandalo e a far discutere. Il «nulla di nulla» di Qohelet riguarda l’esistenza umana e, a prima vista, sembrerebbe una negazione assoluta della vita, del valore inestimabile di un mondo creato buono, perché voluto da un Dio sapiente e giusto. Lo sguardo di Qohelet sulla vita somiglia alla bestemmia di un ateo, ma così non è, perché il grande saggio, che ha scritto il libro, è un uomo che cerca e s’interroga. Rappresenta tutti gli uomini tormentati, che si sforzano di capire il senso di un mondo contraddittorio e inspiegabile. Per capire il grido roboante di Qohelet dovremmo guardare il mondo con gli occhi di chi si affatica senza carpire un sorso di vita, di chi grida senza ottenere risposta, di chi lotta senza raggiungere alcunché.
Ma c’è anche un altro versante della verità di Qohelet, più attuale. Qohelet rappresenta la coscienza critica di un mondo che vive di apparenze e si nutre di menzogna. Dell’uomo che affida la sua riuscita a una vita frenetica, popolata di profitti e di interessi, guadagnati con ogni mezzo. Una critica dell’accumulo e dell’immagine, con cui si cerca di riempire il grande vuoto di senso. Ed è proprio a questo livello che ci conduce l’accostamento dei testi voluto dalla liturgia di oggi.
Qohelet denuncia l’inconsistenza di uno stile di vita impastato di larve e chimere, che gli uomini cercano con tutte le loro energie, dimenticando ciò che invece è essenziale. Denuncia i tentativi umani di sostituire Dio con gli idoli vuoti, sordi e muti, che rispondono solo con l’illusione e l’inganno. Il tema della ricchezza, su cui si concentra il vangelo di Luca, s’innesta su questo versante.
Il Vangelo: Lc 12,13-21
Un lemma dà il tono all’intero brano lucano: pleonexia, che per lo più si traduce con “cupidigia”, “avidità”. Etimologicamente, il termine fa riferimento al desiderio di «possedere sempre di più (pleon)», alla bramosia di accumulo che accompagna l’essere umano nella sua vita terrena: «Demolirò i miei depositi, ne costruirò di più grandi e lì raccoglierò tutto il grano e i miei beni…».
Nel soliloquio del ricco protagonista della parabola, tuttavia, non è neppure questo desiderio il problema fondamentale. Egli non è insensato perché è ricco, né perché vuole godere dei suoi beni. Tanto meno viene biasimato per una vita dissoluta o per essersi arricchito ingiustamente… Niente di tutto questo. Il problema è un altro: la cupidigia lo ha reso cieco, perché non gli ha permesso di pensare né a Dio né al prossimo, ma solo a sé stesso: «Hai molti beni, mangia, bevi e fa’ festa». I suoi calcoli tengono conto solo di sé. Ed è proprio qui la grande denuncia del Vangelo di Luca. Le ricchezze non sono di per sé un male, e tuttavia costituiscono un grosso pericolo, perché hanno il potere di occupare l’uomo, oscurando Dio e il prossimo. L’iniquità, dunque, non consiste nel denaro in sé, ma piuttosto nell’appropriazione dell’uomo, che ne fa un proprio possesso, dimenticando che ne è, invece, solo un “amministratore”.
Al tempo di Luca, il possesso dei beni godeva molta stima tra i maestri d’Israele. Sebbene anch’essi conoscessero il pericolo delle ricchezze, tuttavia mammona come tale non veniva mai contrapposto a Dio (cf. Lc 16,13). Anche Luca non pone una questione di principio e non offre un assioma teoretico sulla malvagità dei beni. Mette però in guardia dal pericolo, perché “di fatto” la ricchezza ha la capacità di monopolizzare il cuore dell’uomo. «Cercate piuttosto il Regno» (Lc 12,31) è l’ammonimento di Luca. Il retto uso dei beni significa accoglienza del Regno (cf. Lc 18,24-25). La decisa ambiguità e pericolosità dei beni risiede nell’ostacolo “concreto” che essi frappongono al primato di Dio.
Dire che il giusto uso dei beni è un’esigenza del Regno, significa dire che il problema delle ricchezze, in Luca, costituisce non solo e non tanto una questione di etica, ma di fede. Il termine mammona, infatti, etimologicamente, deriva dal verbo ’aman (poggiare, credere) che – paradossalmente – appartiene al vocabolario della fede! In fondo il problema è proprio qui: su chi o che cosa poggi la tua esistenza? Luca non ha di mira un programma sociale giusto per la società civile, e neppure un sistema di leggi che governino la chiesa, non offre certamente carte costituzionali sull’organizzazione delle nazioni e sui rapporti tra paesi ricchi e poveri. Ma non lascia neppure il campo completamente vuoto, perché chiama i credenti a testimoniare un modello diverso da quello vigente oggi nel rapporto tra ricchi e poveri, sfruttatori e sfruttati.
La visuale lucana sbarazza il terreno da alcune vecchie interpretazioni cristiane di distacco interiore, che avevano un sapore più cinico che evangelico. Costringe, inoltre, le chiese a rileggere il problema dell’uso dei beni in chiave di fedeltà al vangelo di Cristo: un popolo di Dio che deve contare i suoi poveri è un popolo infedele alla missione affidatagli. Obbliga, infine, a rivedere vecchi costumi di assistenzialismo sterile, con una riflessione profonda su ciò che significhi oggi, concretamente, “condividere”. Da tutti, Luca esige una liberalità senza restrizioni, indice di un distacco effettivo e non solo affettivo. Lo avevano capito anche alcuni Padri, tra i quali Ireneo che senza paura poteva dire: «…Tutti noi infatti ci portiamo appresso un patrimonio, grande o piccolo, che ci siamo procurati col mammona dell’iniquità. Infatti, da dove vengono le case nelle quali abitiamo, le vesti che indossiamo, gli oggetti che usiamo e tutto ciò che serve alla nostra vita quotidiana, se non da quello che ci siamo procurati, grazie alla cupidigia, quando eravamo pagani…?». Un interrogativo che suona come una sfida, ancora oggi!
Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano
