Battista Borsato”La “passione” del pastore”

Domenica 14 Settembre (FESTA – Rosso)
ESALTAZIONE DELLA SANTA CROCE
Nm 21,4-9   Sal 77   Fil 2,6-11   Gv 3,13-17

Di Battista Borsato

In quel tempo si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli
scribi mormoravano dicendo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”. Ed egli disse loro
questa parabola: “Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una non lascia le novantanove nel
deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se
la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: “Rallegratevi con me,
perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta. Io vi dico: così vi sarà gioia in cielo per
un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di
conversione. Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una non accende la lampada e
spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche
e le vicine e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto. Così, io vi
dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte”.
Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la
parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il
figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo
patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una
grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno
degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto
saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e
disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò,
andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno
di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al
collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più
degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più
bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso,
ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita,
era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei
campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli
domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto
ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva
entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti
anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa
con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le
prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con
me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era
morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».
(Lc 15,1-32)
Questa domenica ci presenta una delle pagine più belle e sconvolgenti di tutto il Vangelo. Vi si
riportano le famose parabole della misericordia. Queste sorprendenti parabole (Lc 15) nascono da
una domanda, che è poi un severo giudizio nei riguardi degli Scribi e dei Farisei: “Perché costui
accoglie i peccatori e mangia con loro?”. Anche gli Scribi e i Farisei non negavano l’accoglienza a
chi si pentiva e si ravvedeva, ma Gesù ama i peccatori già prima del loro ravvedimento, li ama
anche se peccatori, perché bisognosi di essere amati e aiutati.
Il verbo “mangia con loro” è di una suggestione sbalorditiva: mangiare con i peccatori, i pubblicani,
i pagani, era proibitissimo dalla legge giudaica, era inquinarsi, e Gesù si lascia inquinare per amore

degli altri. Ci è presentato un Dio diverso: un Dio a rovescio di quello della religione ebraica. Qui
c’è il vero contrasto, il dissidio teologico tra Gesù e l’istituzione religiosa.
Mi soffermerò sulla prima parabola, quella della pecora. Quella del figlio prodigo, o del padre
misericordioso, è molto più commentata e l’abbiamo già affrontata in precedenza.
Come sempre soffermiamoci su alcune espressioni.
 “…..lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta”. Ma novantanove non
valgono più di una? Perché il Pastore vuole correre il doppio rischio di perdere le
novantanove, abbandonate a se stesse, e di non ritrovare quella perduta? Questo pastore si
muove secondo una logica strana: ma è la stranezza di Dio. Dio non pratica il nostro modo
di ragionare, fatto di calcoli, di giochi di interesse, e segue invece una logica di attenzione
verso chi si trova maggiormente in difficoltà, nel bisogno. L’amore è prendersi cura di chi
più soffre o vive momenti di spaesamento. Il pastore non trascura di sicuro le sue
novantanove pecore; è probabile che si trovassero in un posto recintato, o che altri ne
avessero cura in sua assenza, oppure, ancora, che queste pecore fossero così docili da
permettergli di allontanarsi per qualche ora. Forse l’evangelista, dicendo che le lascia nel
deserto, vuole ancora di più evidenziare l’irrefrenabile amore, la travolgente passione per la
pecora che si trova nel pericolo. Da notare che l’attenzione è posta su ciò che Dio fa per
recuperare il peccatore smarrito e niente su ciò che debba fare il peccatore per essere
riaccolto da Dio. Dio ama ogni persona come fosse l’unica, anche se si trattasse di una
persona cattiva. È indicata la preziosità di ogni persona davanti agli occhi di Dio. E
l’esplosione della gioia nel ritrovamento è indice di questo amore appassionato e
umanamente irrazionale! L’invito contenuto in questa parabola è rivolto alla Chiesa: Essa
deve preoccuparsi dei lontani, non può chiudersi nella cura dei vicini. So che dire “lontani”
è ambiguo: chi sono? Uomini e donne che possono apparire lontani dalla Chiesa, ma non
necessariamente da Dio e dal suo regno. Papa Francesco invita vivacemente i pastori ad
avere “l’odore delle pecore”, cioè di condividere la loro vita. Bisogna sottolineare che la
ricerca dei lontani, appunto, non deve avvenire per scopi di “conquista” religiosa, ma prima
di tutto per urgenza umana ed esistenziale. Quando, in seno alla comunità cristiana si parla
di “lontani” si pensa normalmente ai non praticanti, e a quali strategie mettere in atto allo
scopo di avvicinarli alla Chiesa. Non intendo dequalificare o scoraggiare questa azione, ma
è importante mettere l’accento, per contrasto, sull’intento liberatorio che muove il pastore
della parabola. Vi sono persone non pienamente libere perché, a causa della situazione in cui
vivono, non hanno dignità e diritti: si trovano fuori di sé, incapaci di gestirsi, perse
interiormente e, di conseguenza, emarginate o addirittura condannate. Ora, l’azione della
Chiesa non deve essere principalmente rivolta a renderle “religiose”, ma ad essere
“persone”, nella completezza del termine. Se poi diventano religiose, meglio. Gesù non ridà
la vita ai ciechi, o l’udito ai sordi, o la parola ai muti, perché diventino suoi seguaci o
aderiscano alla sua visione del mondo: lo fa perché diventino persone libere, promosse,
piene. Più sono persone, più sono immagine di Dio.

  • “Quando l’ha trovata pieno di gioia se la carica sulle spalle…”. Prima di mettere in rilievo
    la gioia esplosiva del pastore che ritrova la pecora, vorrei farmi, o farci, una domanda:
    Perché la pecora si è perduta? Può essersi perduta per sbadataggine propria, ma anche per
    trascuratezza del pastore, oppure perché non vuole vivere una vita intruppata e allineata. E
    non sembri, quest’ultima, un’ipotesi sciocca. Le varie vie di interpretazione consentiteci dalla
    parabola ci spingono a soffermarci anche su questa possibilità: la pecora si perde nella
    ricerca della libertà personale, perché vuole seguire la propria coscienza e non sottostare
    passivamente a scelte imposte da altri. Sono molti oggi quelli che lasciano la Chiesa. Perché
    accade? È facile dire che la gente se ne va perché il benessere ha infiacchito tutti, perché
    credere è scomodo e non credere è più semplice. Non nego che queste motivazioni abbiano

un loro fondamento, ma osservo anche che alcuni abbandonano la Chiesa perché si sentono
minorenni, perché non hanno voce in capitolo, perché al suo interno non vengono
corresponsabilizzati. Avvertono che le proprie coscienze sono imbavagliate da norme e leggi
a volte discutibili, che impediscono di agire in piena autonomia. Questa diaspora non
potrebbe suonare come un appello alla gerarchia, un richiamo ad essere meno invadenti, un
invito ad ascoltare le voci ed i pensieri di tutti? Non potrebbe, questo esodo, indicare
l’insofferenza verso un clericalismo che pretende di far da guida alla Chiesa e che si
permette di tralasciare il contributo delle idee non gradite?
Due piccoli impegni:

  • L’amore non guarda il numero, ma il bisogno delle persone.
  • Lasciarsi interrogare dalle diserzioni nella Chiesa.