Mariapia Veladiano”Abbandonarsi alle mani del Padre”

Domenica 5 Ottobre (DOMENICA – Verde)
XXVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C)
Ab 1,2-3;2,2-4   Sal 94   2Tm 1,6-8.13-14   Lc 17,5-10

Di Mariapia Veladiano

Il Vangelo di oggi si apre e si chiude con due espressioni che probabilmente ogni credente ha in mente bene eppure chissà che cosa pensiamo quando le ascoltiamo. La prima è dei discepoli: «Accresci in noi la fede!», dicono a Gesù. La richiesta è sicuramente piuttosto devota e in qualche modo ineccepibile. Gesù ha appena fatto una serie di affermazioni categoriche inquietanti: è meglio morire che dare scandalo (in realtà la versione di Gesù è molto più visiva e drammatica e la scena della grossa pietra da mulino al collo e pesante tonfo in mare aveva fatto il suo effetto) e poi aveva messo in guardia: «Attenti a voi stessi!».

L’affermazione successiva sulla necessità di perdonare l’offesa non una volta ma settanta volte sette, cioè sempre, era diversamente inquietante, perché le faide esistevano allora come ora e si sa quanto gli odi possano essere eterni e quanto sia difficile perdonare anche solo una volta. Troppo vorticose le parole del Maestro. Non sanno che cosa rispondere i discepoli però confusamente capiscono che da soli non ci arrivano, che si tratta di fede. Più fede, chiedono, puntando istintivamente sulla quantità, potremmo dire. È lo spirito del mondo che non ci abbandona nemmeno quando con assoluta sincerità ci mettiamo alla sequela. Il Vangelo di Marco riporta parole molto più luminose nell’episodio del giovane epilettico indemoniato, quando il padre del ragazzo rivolgendosi a Gesù dice: «Credo, aiutami nella mia incredulità» (Marco 9, 24). Viene da pensare che l’amore (per un figlio) sia così potente da portar fuori dalla logica del mondo e da suggerire le parole giuste. Qui invece i discepoli sono sinceri ma confusi. E Gesù li segue su questa strada della quantità, per così dire, e afferma che di fede ne basta un granellino quasi invisibile per indurre un albero dalle radici robuste come il gelso a sradicarsi e trapiantarsi in mare. Ancora il mare e ancora una visione potentissima che riempie gli occhi dei discepoli. E quindi? Con questa immagine davanti e con uno scarto che ci sorprende, Gesù racconta la parabola del padrone e del servo, che si chiude sull’espressione «servi inutili». I discepoli sono costretti a una capriola. È tutto diverso da come pensano. Quanta speculazione devota sull’aggettivo “inutile”. A sostegno di una mistica dell’annullamento di sé che non trova però appoggio né qui né in altre parti del Vangelo. Il servo della parabola è utilissimo, ha fatto un mare di cose, la vita della casa sarebbe stata diversa e meno confortevole senza di lui. Oggi gli esegeti offrono molte traduzioni di questa espressione, e si aprono altre interpretazioni: «servi che non chiedono compenso», «servi privi di utile», cioè denaro. Fra queste l’espressione «servi senza pretese» è forse la più vicina rispetto al senso della parabola. Chi sta alla sequela è utile, eccome, ma non pretende. Non fa della sua vita in compagnia del Signore una questione di potere, denaro, prestigio, possesso. Non dà scandalo perché è al servizio della vita. Chissà cosa hanno capito i discepoli se poco più in là troviamo gli apostoli impegnati a discutere su chi è il più grande fra di loro (Luca, 22, 24) e Gesù dovrà parlare ancora più chiaro: «Io sono fra voi come colui che serve» (Luca, 22, 27). Questo è.