Domenica 26 Ottobre (DOMENICA – Verde)
XXX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C)
Sir 35,15-17.20-22 Sal 33 2Tm 4,6-8.16-18 Lc 18,9-14
Di Sorelle Clarisse Monastero di Bergamo🏠
Continua l’insegnamento di Luca sulla preghiera. Se la scorsa domenica l’accento era posto sull’insistenza e la perseveranza, segni di una fiducia che non viene meno dentro le contraddizioni e la drammaticità della vita, oggi invece ci viene detto il movimento da seguire per entrare in una relazione di intimità con il Signore, affinché la nostra preghiera sia davvero preghiera.
Il testo parte dall’affermazione che vi sono alcuni che “hanno l’intima presunzione di essere giusti”. Tutti in genere partiamo da qui. Tutti, il più delle volte senza accorgerci, tendiamo a difendere un’immagine di bontà, giustizia, rettitudine e questo non solo nei confronti degli altri, ma anche nei confronti di Dio. Il testo ci dice che questo modo di pensare e agire è intimo, cioè ha radici profonde dentro di noi. Se guardassimo, nella nostra vita di tutti i giorni, a quante volte nelle relazioni ci difendiamo o giudichiamo gli altri, non solo con le parole ma il più delle volte con i nostri pensieri, ci accorgeremmo che sono tante. Ogni volta è come se anche noi, come il fariseo, dicessimo: “non sono come gli altri uomini”. Abbiamo un innato bisogno di sentirci migliori. E questa rivela la sete di riconoscimento e di amore che mascheriamo dietro il nostro apparire giusti e il nostro agire politically correct. Il fariseo pone davanti al Signore tutti i suoi meriti, come se con questi potesse guadagnarsi la bontà di Dio nei suoi confronti.
Ed ecco che il pubblicano ci insegna il movimento, la via per entrare in relazione con il Signore, o meglio, per permettere al Signore di entrare nella nostra vita. A differenza di quanto noi facciamo per istinto, ovvero farci belli davanti a Dio, egli non ha paura di riconoscere la distanza dal Signore e dai suoi insegnamenti, tanto che gli occhi rimangono abbassati perché sa di non poter conquistare il cielo. È l’umiltà di chi si pone davanti a Dio con la sua povertà, non nascondendola ma consegnandola al Signore, nella fiducia che il Signore è più grande e che la misericordia non è un merito ma un dono gratuito del suo amore. Francesco d’Assisi ci ricorda nella V ammonizione che se “anche tu fossi più bello e più ricco di tutti, e se tu operassi cose mirabili, come scacciare i demoni, tutte queste cose ti sono di ostacolo e nulla ti appartiene, e in esse non ti puoi gloriare per niente; in questo possiamo gloriarci, nelle nostre infermità e nel portare sulle spalle ogni giorno la santa croce del Signore nostro Gesù Cristo”. E ancora, nella Regola Bollata, Egli “ci salverà per sua sola misericordia” (Rnb XXIII,8).
C’è un gioco interessante dei verbi salire e scendere in questo vangelo. Se entrambi i due personaggi sono saliti al tempio, per l’uno questo movimento è stato un’autoesaltazione, per l’altro è stato in realtà un scendere verso la verità di se stesso e di Dio che è misericordia. È il movimento che anche Gesù ha vissuto, il suo essere innalzato è stato un radicale abbassamento. Questo è il movimento che anche ciascuno di noi è chiamato a vivere nella preghiera e nella vita quotidiana.
Di fatto il restare rinchiusi dietro l’immagine che noi ci siamo costruiti ci divide dagli altri: “non sono come gli altri uomini”. Il riconoscere la nostra povertà e il nostro peccato ci fa essere solidali con tutti, perché non abbiamo nessun titolo da vantare nei confronti degli altri ma condividiamo la stessa umanità ferita. Da qui nasce la compassione e la carità autentica, che non sarà più un nostro merito, ma un condividere la grande misericordia che il Signore riversa su di noi.



