Alessandro Cortesi Commento V Domenica del Tempo Ordinario

Is 58,7-10; 1Cor 2,1-5; Mt 5,13-16

Il terzo Isaia è profeta del periodo del dopo esilio: riprende gli orientamenti di Isaia profeta del VIII secolo in una situazione nuova. Il suo è un libro di aperture e speranza. S’interroga sull’essenziale alla fede, dopo un’esperienza traumatica e dolorosa come l’esilio. In essa tuttavia vi è stata occasione per ripensare la fede, per considerare la profondità del disegno di salvezza di Dio. Chi lo accoglie è liberato da una religiosità che chiude in orizzonti nazionalistici e autocentrati.

Per questo Isaia contesta tutte le forme di religione che svuotano il rapporto con Dio riducendolo ad una religiosità magica. La pratica di forme individuali di sacrificio per ingraziarsi un Dio percepito come lontano è espressione di un modo di intendere Dio stesso come entità da placare e controllare con un culto separato dalla vita. Isaia critica così ‘digiuni e sacrifici’ e indica invece un ‘altro digiuno’ che ha a che fare con rapporti di giustizia: al centro della fede sta la sfida del rapporto con l’altro. La fede trova terreno di verifica in rapporti di giustizia e cura con gli altri. La ragione di questo sta nell’agire stesso di Dio: il Dio d’Israele scende a liberare, ascolta il grido dell’oppresso, si prende cura di marginali ed esclusi. Il povero, l’orfano, la vedova e lo straniero sono coloro che non hanno altre sicurezze umane e possono trovare sostegno solamente in Lui. A chi vive la fede è affidato il compito di continuare questa azione di Dio nella storia.

In tal modo si può ‘essere luce’: è un cammino in cui attuare azioni di liberazione: lo sciogliere le catene, rompere i vincoli di chi è oppresso. E dividere il proprio pane: la fame è schiavitù che conduce alla morte. A Dio sta a cuore che i suoi figli abbiano da mangiare e imparino a condividere.

“Voi siete il sale della terra… voi siete la luce del mondo”. Gesù chiama i suoi discepoli, dopo aver indicato loro la via delle beatitudini, ad essere segno di alleanza per tutti. Sono mandati ad essere segno generando fascino e attrazione. La comunicazione della fede, come incontro con Cristo, non è opera di indottrinamento ma di testimonianza e di contagio. Gesù chiede ai suoi discepoli di essere luce e sale, cioè segni, in cui nella vita traspaia una testimonianza.

Il sale svolge la sua funzione solamente in rapporto ad altro, come la luce. Matteo elabora l’immagine della luce in una parabola: la città sul monte e il candelabro.

Essere sale e luce implica ‘stare dentro’ alla realtà, divenire responsabili, non pretendendo visibilità e riconoscimenti, ma dando sapore senza pretendere nulla per se stessi. E’ seguire la via di Gesù che si fa solidale con la nostra storia entrandovi dentro e immergendosi. I discepoli sono invitati ad essere come sale che dà sapore in termini di servizio e di disinteresse: è seguire Gesù che attua la via delle beatitudini. Gesù non chiama ad estraniarsi dalla storia, ma a stare dentro le realtà ed essere lì segno di una luce ricevuta, di un sapore da condividere. Seguire Gesù rinvia ad assumere la responsabilità della testimonianza e a vivere in modo nuovo i rapporti con gli altri.

Alessandro Cortesi op


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