Don Marco Ceccarelli Commento V Domenica del Tempo Ordinario, Anno “C”

I Lettura: Is 6,1-8
II Lettura: 1Cor 15,1-11
Vangelo: Lc 5,1-11

  • Testi di riferimento: Gen 26,24; 46,3; Es 19,12.20-24; 20,19; Nm 4,5-20; 31,15.18; Dt 5,25; Gs
    2,13; 3,3-4; 6,25; 9,20; Gdc 6,23; 13,22; 1Sam 6,20; 2Sam 6,6-10; 8,2; 2Cro 25,12; Gb 42,5-6; Qo
    4,17; Is 33,14-15; 43,5; Mt 17,6; Gv 3,13; 2Tm 2,26; Eb 12,18-29
  1. Il tema principale di questa domenica pare essere quello della manifestazione di Dio, il cui apice
    si realizza in Cristo. Attraverso l’umanità di Gesù Dio rivela se stesso, si fa conoscere, comunica la
    sua parola, compie la sua salvezza. Se ci si ferma però all’uomo Gesù, quell’uomo che ha condiviso
    in tutto la condizione umana dei suoi concittadini, si finisce per non accogliere la salvezza. Così è
    successo a Nazareth. L’episodio descritto nel brano di Vangelo odierno è una sintesi del cammino
    che farà Pietro e che deve fare ogni discepolo; un cammino che va dall’umanità di Cristo alla sua
    divinità. Abbiamo infatti il riconoscimento di Cristo prima come maestro (vv. 1-5: la gente accorre
    da Gesù per ascoltare la parola di Dio, Gesù insegna, Pietro lo chiama “maestro”), poi come profeta
    (v. 5: Pietro obbedisce alla parola di Gesù), infine come Dio (v. 8: “Signore”). Per giungere a questa
    professione di fede Pietro ha dovuto accogliere la parola di Gesù come parola divina; e facendo ciò
    ha raccolto i frutti di quella parola, che a un primo livello sono i pesci pescati, ma ad un livello più
    profondo è l’incontro con Dio presente in Gesù. Se si obbedisce alla parola del maestro e del profeta
    si potrà vedere in lui la potenza di Dio, anche se si è totalmente indegni e incapaci di stare alla presenza di Dio.
  2. La reazione dell’uomo.
  • Nonostante la sua indegnità, nonostante il suo essere peccatore, Pietro sta alla presenza di Dio. E
    può farlo non perché lui sia salito al cielo, ma perché Dio è disceso dal cielo. Quello di voler incontrare la divinità tramite le proprie forze è un tema ricorrente (cfr. ad esempio Gen 11,1-9). Tuttavia
    ciò non è possibile. “Nessuno può salire al cielo se non il figlio dell’uomo che è disceso dal cielo”
    (cfr. Gv 3,13). Si può trovare Dio soltanto se Lui si abbassa e si fa piccolo così che l’uomo possa
    incontrarlo senza rimanere annientato. È la stessa esperienza di Isaia descritta nella prima lettura.
    Isaia si trova nel tempio e vede il Signore. Questa visione lo sconvolge, sapendo che nessun essere
    umano può stare alla presenza di Dio. L’apparire della santità di Dio ci “fa” impuri, cioè rende manifesta la condizione peccaminosa dell’uomo, la sua non santità. La reazione di Isaia, come quella
    di Pietro, manifesta l’esperienza primaria dell’uomo davanti a Dio. È impossibile stare alla presenza
    di Dio e non riconoscersi peccatori. Se stiamo davanti a Dio e ci sentiamo giusti significa che quello
    non è Dio, ma un idolo, cioè un dio a nostra misura, un dio che ci siamo fabbricati noi. Poiché
    l’uomo non può avvicinarsi a Dio, Isaia pensa di essere in procinto di morire. Però Dio lo rende
    “idoneo” per stare alla Sua presenza. È una esperienza analoga a quella del sommo sacerdote il quale, per poter entrare nel santo dei santi, alla presenza di Dio, ad offrire il sangue per l’espiazione dei
    peccati (cfr. Eb 9,7) doveva sottoporsi ad una profonda purificazione.
  • La richiesta di Pietro a Gesù di allontanarsi da lui esprime la stessa consapevolezza. Il riconoscimento del proprio peccato davanti alla manifestazione di Dio è indispensabile per non rimanere
    “bruciati”. Chi pensa di poter mettere la mano nel fuoco senza rimanere bruciato è stupido; avvicinarsi a Dio senza riconoscere la propria non-divinità, non-santità, è altrettanto stupido e pericoloso.
    Nessuno è all’“altezza” di Dio; nessuno è degno di stare alla sua presenza. Rispetto a Lui noi siamo
    totalmente altro (soltanto se diventiamo consapevoli di questa verità possiamo apprezzare cosa significhi che il Dio trascendente si sia fatto uomo per farsi vicino a noi). I padri spirituali antichi dicevano che più ci si avvicina a Dio e più ci si accorge della propria distanza da Lui. Viceversa possiamo dire che soltanto se ci si rende conto della propria realtà di peccatori si può essere certi di essere alla presenza di Dio. La superbia che spinge l’uomo ad elevarsi fino a voler essere dio è ciò che
    gli procura la rovina (cfr. Gen 11,1-9). Al contrario, il riconoscimento della nostra distanza da Lui è
    la condizione essenziale per ricevere da Lui la purificazione, la santità, e la missione. Questa sarà
    l’esperienza che Pietro nel momento della passione di Gesù, nel momento in cui veramente sperimenterà la sua condizione di peccatore, dopo aver creduto di essere all’altezza di seguire Cristo (Lc
    22,33). Ed è anche l’esperienza di Paolo descritta nella seconda lettura odierna, in cui dichiara la
    sua raggiunta consapevolezza di essere “come un aborto”, e che, nonostante ciò, per la grazia di Dio
    egli è un apostolo.
  • Proprio perché la paura è la normale reazione dell’uomo davanti Dio, Dio gli dice: “Non avere
    paura” (vedi testi di riferimento). Dio si fa vicino all’uomo per farsi conoscere da lui e per chiamarlo. In Cristo Dio si fa vicino a Pietro e lo chiama ad una missione particolare, una missione profetica e sacerdotale. Pietro dovrà essere catturatore di uomini per portarli a Cristo, perché ricevano il
    perdono dei peccati, come il sommo sacerdote si avvicinava a Dio per il perdono dei peccati del popolo.
  1. La chiamata e la missione. Da quanto detto sopra ricaviamo che davanti alla chiamata di Dio
    l’uomo deve evitare due atteggiamenti. Da un lato la presunzione di sentirsi all’altezza della chiamata e della missione. Nessuno è mai all’altezza o degno di servire Dio. D’altro lato, l’inopportuna
    umiltà da rinunciare alla chiamata a motivo della propria indegnità e inadeguatezza. E ciò per il fatto che Dio, nonostante la nostra fragilità, ci darà tutte le grazie necessarie per realizzare la missione.
    Nessuno si deve tirare indietro adducendo come pretesto la propria debolezza. Questo sarebbe mancare di fede nella potenza di Dio. Sulla parola di Cristo possiamo gettare le reti lì dove con tutta la
    nostra fatica non siamo arrivati a nulla.
  2. “Catturatore (zogron) di uomini” (Lc 5,10). Il verbo zogreo, usato da Lc a differenza degli altri
    sinottici, significa “catturare (qualcuno) vivo”, “mantenere in vita”, “far vivere” nel senso di liberare dalla morte (vedi testi di riferimento). L’immagine è dunque paradossale, ma anche significativa.
    Infatti, mentre un pescatore provoca la morte dei pesci facendoli uscire dall’acqua Pietro, al contrario, darà la vita agli uomini facendoli uscire dalle acque della morte, salvando coloro che stanno annegando, risparmiando la vita a quelli che sono condannati a morte. La formula della frase rivolta
    da Gesù a Simone significa in definitiva: “salverai gli uomini da morte sicura”. Il verbo zogreo lo si
    ritrova nel Nuovo Testamento soltanto in 2Tm 2,26, applicato a coloro che «sono stati catturati (dal
    diavolo) per fare la sua volontà». Cristo è venuto a “slegare” quelli che stanno sotto il potere di satana (Lc 13,16). “Da ora in poi” (Lc 5,10) appare qualcosa di nuovo sulla terra: il potere di salvare
    gli uomini e permettere loro di vivere. Questa attività è affidata alla Chiesa di cui Pietro svolge un
    ruolo preminente (Lc 22,32), il ruolo di legare e slegare (cfr. Mt 16,19). Quella liberazione dei prigionieri che Cristo aveva annunciato nella sinagoga di Nazareth (Lc 4,18) ora viene affidata a Pietro
    e alla Chiesa. La Chiesa è il luogo dove possiamo avvicinarci a Dio (Eb 12,22-24) per ascoltare la
    Sua parola ed essere purificati dai peccati.
  3. Fonte:http://www.donmarcoceccarelli.it/