V Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (05/02/2023)
Il brano evangelico è nel contesto delle beatitudini. Coloro che sono proclamati beati, non lo sono solo per
se stessi, ma anche nei confronti del mondo; essi, per le realtà terrestri, sono luce e sale. «Voi siete la luce
del mondo»; Gesù ha detto queste parole in primo luogo ai credenti, ai discepoli che sono i poveri, i miti,
coloro che hanno fame e sete di giustizia… Essi sono luce non tanto perché appartengono di fatto alla Chiesa
e neppure perché sono uomini di preghiera e fedeli al culto; quanto e perché in primo luogo sono poveri,
miti, puri di cuore, operatori di pace… Una realtà sottolineata anche dalla prima lettura! La concretezza di
Isaia non ci permette di giocare o sottilizzare con la parola di Dio. Gli affamati nel mondo si contano a
centinaia di milioni anche oggi; e sono sempre in aumento perché così comanda la ferrea logica di un
sistema economico disumano che raccoglie ricchezze sempre più grandi nella casa di chi è sazio e spoglia
inesorabilmente chi è nella miseria. Al popolo ebraico preoccupato della pratica esteriore ed irreprensibile
del culto, indaffarato a ricostruire il tempio distrutto, Dio ricorda che, più dello splendore del culto, gli è
gradito l’ospitare i senza tetto, il dividere il pane con l’affamato: «Allora sì la tua luce sorgerà come
l’aurora». Non basta pregare e digiunare. La preghiera e il digiuno devono essere uniti all’azione «per far
brillare fra le tenebre la luce». L’astinenza dal cibo conta poco, se non è per nutrire l’affamato. Come, in
concreto, il discepolo può diventare «sale della terra e luce del mondo», lo dice chiaramente anche
l’evangelo quando conclude: «Vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei
cieli». Non sono le parole che testimoniano la venuta del regno di Dio, ma il pagare di persona, il
compromettersi negli avvenimenti costruttivi. Il discepolo deve dissolversi, penetrare profondamente nel
mondo per dargli il gusto nuovo, il fermento di salvezza portato da Cristo.
Nel rito del battesimo il sacerdote affida al padre del battezzando una candela accesa al cero pasquale.
Cristo risorto è la «luce». Il battezzato è l’«illuminato» che si inserisce nella morte-risurrezione di Cristo.
Vivere la luce è l’impegno che l’attende. Le «azioni della luce» sono azioni dello Spirito; e in lui non c’è
posto per presunzione, vanto, superbia personale.
Dall’eucologia:
Antifona d’Ingresso Sal 94,6-7
Venite, adoriamo il Signore,
prostrati davanti a lui che ci ha fatti;
egli è il Signore nostro Dio.
Nell’antif. d’ingresso l’Orante del Sal 94,6-7a, EP. sacerdote e profeta, rivolge l’esortazione al popolo
raccolto nel santuario, ancora non pienamente consapevole della sua situazione. Il primo imperativo è di
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venire alla presenza del Signore, per adorarlo con amore e con gioia, prostrati davanti al Creatore
onnipotente (99,3; 138,14; 149,2; Dt 32,6), in specie però Creatore del popolo suo (v. 6), del suo gregge che
conduce (v. 7bc). La motivazione è primaria, poiché Egli è il Dio dell’alleanza (v. 7a; 47,15; 99,3), alleanza
infinitamente fedele, che attende il suo popolo, e dunque oggi anche noi, popolo che Egli ama e chiamato ad
attuare i contenuti salvifici ricevuti per il nostro unico bene.
Canto all’Evangelo Gv 8,12
Alleluia, alleluia.
Io sono la luce del mondo, dice il Signore;
chi segue me, avrà la luce della vita.
Alleluia.
Cristo è la Luce del mondo, in quanto Verbo (1,5), Luce venuta nel mondo (3,19), che non lascia nelle
tenebre i suoi fedeli (12,46). È la Luce promessa (Sal 35,10; Is 42,6, delle nazioni, come 49,6; Mal 4,2), che
tuttavia già risplende (1 Gv 2,8). La Luce è il simbolo della Vita, destinata a chi la segue come possesso
permanente, sì da potere a sua volta donare agli uomini «la Luce della Vita». Questo orienta la
proclamazione evangelica che segue.
Antifona alla Comunione Sal 106,8-9
Rendiamo grazie al Signore per la sua misericordia,
per i suoi prodigi verso i figli degli uomini; egli sazia
il desiderio dell’assetato e ricolma di beni l’affamato.
Nell’antifona alla comunione (dal Sal 106,8-9, AGC), noi «oggi qui» siamo chiamati dall’Orante a celebrare
il Signore per le sue infinite misericordie (vv. 15.21.31), operate come «fatti mirabili», che provocano noi
rinnovata sorpresa, ammirazione e gioia (v. 8). Tra questi fatti mirabili, uno spicca tra tutti, che il Signore si
prende cura personale delle nostre esistenze, come perennemente già agiva nell’A. T. (33,11; 145,7; Mt
5,6), dando cibo divino alle anime languenti, e ricolmando di bene e di beni le anime affamate (Lc 1,53),
rendendo dunque gradevole la vita davanti a Lui (v. 9). Questi fatti mirabili si ripetono oggi qui per noi con
incredibile precisione. Destinati a essere il sale della terra e la luce del mondo, noi fedeli riceviamo anche
tutta l’immensa Grazia dello Spinto Santo: sia dall’ascolto della Parola evangelica, sia dalla comunione
dello Spirito Santo che si attinge alla Mensa dei Misteri, sia dall’appartenenza alla Chiesa, la Sposa del
Signore, la Madre, l’Orante, ossia il luogo del sacrificio “salato” per l’alleanza divina, essendo posta con lo
Sposo come Luce delle nazioni. Per aiutare la lettura della pericope evangelica è bene in questa domenica
riprendere ancora il filo conduttore della narrazione di Matteo, facendo il collegamento fra il testo che
racconta l’inizio del ministero in Galilea e questa serie di “detti” che ci accompagneranno fino alla
Quaresima.
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Nella prima sezione narrativa del suo evangelo (Mt 3-4) Matteo presenta l’inizio del ministero di Gesù –
introdotto da Giovanni Battista – fino al suo insediamento a Cafarnao; come di consueto questo evangelista
insiste nel far osservare che Gesù compie le Scritture e il vertice di tale compimento si ha proprio
nell’annuncio della «buona notizia» (cfr. III Dom.). Quindi segue un grande discorso programmatico (Mt 5-
7), pronunciato sulla montagna, in cui Matteo ha raccolto l’insegnamento decisivo del Maestro e ne ha
delineato l’annuncio programmatico, presentando Gesù come il nuovo legislatore: «Vedendo le folle, Gesù
salì sul monte: si pose a sedere e sì avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro,
dicendo…» (Mt 5,1-2).
Di fronte alle folle che accorrono Matteo descrive Gesù mentre sale sul monte, luogo teologico, carico di
significato simbolico, al punto da dare il nome all’intero discorso che segue. Non si tratta di una questione
geografica, tanto è vero che il discorso analogo viene collocato da Luca in pianura (Lc 6,17). Se per Matteo
la montagna è il luogo della rivelazione e dell’incontro con Dio, per Luca la pianura evoca piuttosto le
grandi scelte e serve meglio a indicare la vicinanza alle folle e la futura missione della Chiesa aperta a tutti.
Secondo la tradizione biblica il monte ha una valenza simbolica importante, in quanto luogo teologico, dal
momento che la montagna è la terra protesa verso il cielo, il punto dove la terra sembra toccare il cielo:
perciò la montagna è luogo di incontro tra Dio e l’uomo, ambiente privilegiato della rivelazione. Per la
tradizione di Israele, che fa memoria del fondativo incontro con YHWH, la montagna per antonomasia è il
Sinai, il monte santo, dove Dio diede la legge al suo popolo. Spesso, per spiegare il particolare descrittivo di
Matteo, viene evocato un confronto parallelo con Mosè che sale sul Sinai per ricevere da Dio la legge:
nonostante la somiglianza, bisogna notare che Gesù non riceve la legge da Dio, ma la proclama egli stesso.
Infatti, assunta la posizione tipica del maestro in cattedra («si pose a sedere»), come la Sapienza «apre la
bocca» (cfr. Sir 24,2) per effondere il suo insegnamento e nel ruolo stesso di Dio egli dona ai suoi discepoli
la nuova legge, che ha la caratteristica fondamentale di non essere una legge, ma la buona notizia della
grazia divina. Semmai sono i suoi discepoli a prendere il posto di Mose, giacché è detto con espressione
tecnica “sacerdotale” che «si avvicinano» a Gesù, riconoscendo cioè in lui la fonte della rivelazione e il
datore della parola definitiva che salva.
Ai discepoli di Gesù è affidato il compito di far diventare discepoli anche gli altri uomini (cfr. Mt 23,19):
ma di Maestro ce n’è uno solo ed è Gesù. Il verbo “insegnare” infatti è di sua esclusiva pertinenza. Come il
rivelatore definitivo, dunque, Gesù propone il suo fondamentale insegnamento che è l’Evangelo, non
un’altra legge. Dire «nuova legge» può fuorviare, perché sembra indicare una sostituzione: in realtà si tratta
della stessa e unica legge che viene portata a compimento. La bella notizia è che il progetto di Dio ora si
può veramente realizzare.
I lettura: Is 58,7-10
Il cap. 58 di Isaia è tutto una denuncia del profeta contro l’osservanza eccessivamente formalistica del
digiuno. Balza evidente agli occhi del profeta l’intima contraddizione, il controsenso di una pratica come il
digiuno, che esprime ritorno a Dio, osservata da un popolo che continua a non osservare la legge di Dio e a
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sopportare tranquillamente il permanere nel proprio seno – di gravi soprusi ed ingiustizie. Il profeta scopre
nel ragionamento degli ebrei una grave stortura: digiunando, il fedele non si preoccupa di convertire se
stesso a Dio, ma piuttosto tenta di convertire Dio a sé, di piegarne, la volontà; e perciò si lamenta di non
essere ascoltato, di sperimentare l’inefficacia del suo digiuno.
Ma il digiuno voluto da Dio è un altro: è un attivo amore verso il prossimo. Nel brano proposto nell’odierna
lettura troviamo la parte positiva del discorso di Isaia, nella quale il profeta chiarisce qual è il digiuno
gradito a Dio e il frutto del ritrovato rapporto con lui.
Il testo fa parte del «Terzo Isaia», che secondo la critica è una raccolta di oracoli profetici del tempo
immediatamente dopo l’esilio. Essa era indirizzata verosimilmente a un popolo ancora molto demoralizzato,
che aveva visto avverarsi le promesse del ritorno, ma non aveva ancora posto l’anima, il cuore, l’intelligenza,
l’emozione, l’amore alla nuova situazione voluta dal Signore. In una parola, un popolo restato nelle
conseguenze del peccato vecchio, che non aveva saputo recepire il momento di rigenerazione. Due direzioni
della sua vita erano distorte, il culto puro nella Casa del Signore, e la carità fraterna intracomunitaria. Il
Profeta ribatte instancabilmente questi punti decisivi, mostrando che esistono tutte le condizioni per attuarli
nella pienezza desiderata dal Signore. La pericope odierna è rivolta a questo secondo punto. Essa comincia
con il denunciare la demoralizzazione: «Ma a che noi digiuniamo, se Tu poi non guardi? A che ci
mortifichiamo, se Tu poi l’ignori?» (v. 3a). Il Signore replica subito e duramente: «Ma nel giorno in cui voi
digiunate, tuttavia trafficate affari e opprimete i vostri sottoposti!» (v. 3b). Allora detta le norme per la
carità fraterna vissuta (vv. 4-6). Occorre infatti spezzare il pane all’affamato (v. 7; e v. 10; Ez 18,7.16; Mt
25,35-36; Lc 3,11). Il che non vuoi dire gettare pane sbocconcellato e tozzi muffiti come a cani, bensì
ammettere il povero alla propria tavola come padre di famiglia che raduna i suoi e «spezza il pane», ciba
tutti i suoi. Il fedele deve dare dimora in casa sua al fratello che la casa non possiede, non lasciarlo disperato
all’aperto. E deve rivestire i nudi, per la sola motivazione: «è carne tua!», è il te stesso che soffre e che per
amore di te stesso tu devi curare (Neh 5,5). Il v. 7 è una somma di carità, frequente nell’A. T., al contrario di
come si sarebbe portati a ritenere. E se si chiama «una pagina evangelica», vale anche il contrario, che
l’Evangelo è «una pagina attuante dell’A. T.». Ora, se questo popolo ancora svagato e inerte agirà così, il
Signore promette una condizione del tutto nuova. La sua luce eromperà come un’alba nuova (v. 10; 60,1; Sal
36,6; Mal 4,7), alba di vita, ed esso otterrà la subitanea guarigione (Ger 30,17). Non solo, ma esso sarà
preceduto sulle Vie di Dio dalla sua giustizia (52,12; Sal 84,14), e sarà seguito e raggiunto dalla stessa
Gloria divina che lo circonderà (v. 8; 60,1). Ecco la città irraggiante, ecco la lucerna in evidenza, ecco la
luce del mondo, ecco il sale della terra.
In questa condizione, si ristabilisce la relazione antica ideale davanti al Signore. Questo popolo sarà assiduo
a invocare il Signore come il Signore a esaudirlo (30,19; Sal 90,15; Ger 33,3). Non farà in tempo a
chiamarlo, che Lui già ha risposto: «Eccomi!» Tuttavia il Signore esige le opere anzitutto per i fratelli,
prima che per Lui, e quindi i fedeli debbono liberare i loro simili dall’oppressione, non più minacciare i
debitori e i deboli, rinunciare ai piani vani di oppressione che ancora si formulano (v. 9).
In sostanza, i fedeli del Signore debbono dare l’anima, se stessi, all’affamato, come si era detto in apertura
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(v. 7), debbono consegnare l’anima a lui che è la propria anima, e saziare il se stesso affamato che è il
fratello. Ecco di nuovo la promessa del v. 8: dalle tenebre della miseria morale presente, il Signore
procederà a una nuova creazione, facendo scaturire la luce della vita e della salvezza (Sal 36,6; Eccli 32,20;
Mt 5,16), in un giorno nuovo che sarà solo pienezza di luce perenne, un eterno mezzogiorno che non
conoscerà tramonto, come la Carità divina (v. 10).
Il Salmo responsoriale: 111,4-5.6-7.8a.9, DSap
Il Versetto responsorio dal v. 4 a : «Il giusto risplende come luce» fa cantare che se nell’esistenza spesso buia
e grigia si segue la Carità divina, sorge la Luce divina in eterno
Il Salmo comincia con il proclamare beato l’uomo che teme il Signore e trova diletto solo nei suoi
comandamenti (v. 1), e allora il Signore lo benedirà con l’abbondanza (vv. 2-3). Ecco che per lui, uomo retto
davanti a Dio e agli uomini, spunterà dalle tenebre la Luce (96,11 ; Giob 11,17; Mich 7,8). Non è un
simbolo astratto, poiché la Luce è lo stesso Signore in quanto è la Vita, con i suoi titoli divini e le funzioni
che svolge per gli uomini giusti, Egli che è Tenero e Gratificante e Giusto (v. 4a). Si comprenderà meglio
quest’ultimo aspetto, se si considera che i Sal 110, un «Inno di lode»; il Sal 111, questo presente, e il Sal
112, un altro «Inno di lode», formano un trittico contenutistico, per cui nella raccolta del Salterio furono
posti di seguito. I Sal 110 e 112 sono il canto di lode al Signore «Gratificante e Tenero» (110,4b), nella
meraviglia delle sue opere; essi formano i pannelli per così dire esterni, racchiudenti, mentre il Sal 111 è il
pannello e specchio interno, che riflette nell’uomo giusto la stessa Bontà divina celebrata. Così il giusto, di
cui i vv. 5-9 cantano le opere di bontà simili a quelle divine, riceve come premio e sotto forma di Luce la
stessa Bontà divina, о meglio, la stessa Persona divina, il Signore pieno d’amore.
Al v. 4b i 3 titoli divini, benché in ordine diverso, rimandano alla teofania del Sinai (Es 34,5-7), da cui
derivano molti paralleli sparsi nella Scrittura, ma in specie nel Salterio (Sal 85,15; 110,4b; 116,5a; 102,8;
144,8). Si rimanda qui all’A. T. della Domenica della SS. Trinità.
L’Orante prosegue nella descrizione del giusto ricolmo di Luce divina. Egli vive nella gioia del dono, mosso
da misericordia (36,6; 96,11; 40,3), come in un perenne giubileo, ch’è restituzione dovuta, ma con il cuore, a
chi è privo (Lv 25,8-42). Così realmente dispone dei suoi beni con totale giustizia, ch’è carità. Paolo a sua
volta darà il tocco finale a questo, quando ricorda ai Corinzi, citando Pr 22,8, che «Dio ama il donante
gioioso», che scruta il cuore (2 Cor 9,8), ed è il solo capace di contraccambiare infinitamente (2 Cor 9,9). È
la morale biblica, che era ancora del tutto sconosciuta al mondo antico (v. 5).
La ricompensa divina giunge puntuale. Il giusto donante resta saldo in eterno nella sua esistenza di bene
(Sal 54,23; 126,5), la sua memoria sarà eterna, scritta com’è nel libro della Vita, ma anche resta come valido
esempio per le generazioni degli uomini (Pr 10,7; Sap 4,1), che lo ammirano, lo benedicono, e dovrebbero
imitarlo (v. 6). Non solo, ma egli non ha timore di tristi annunci (Pr 1,33), poiché il suo cuore è preparato e
sicuro, nella perfetta speranza e fiducia nel Signore (Sal 58,8; 11,7), e solo in Lui (v. 7). La sua preparazione
alla vita è remota e insieme attuale, indefettibile, risposta perenne alla Grazia divina, che gli rende saldi il
cuore, ossia l’intelletto, la sensibilità e la volontà. Lo rende liberato ormai da ogni timore (v. 3; 124,1; Sir
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22,19).
Ed ecco il giusto, il donante, in funzione. Egli distribuisce i suoi beni, in modo largo e gratuito, senza nulla
pretendere, ai poveri, creature di Dio (2 Cor 9,9). E questa sua carità resta in etemo presso il Signore, del
quale il giusto si è fatto umile imitatore. La gloria del Signore perciò esalterà la sua «potenza», qui indicata
con l’espressione «corno»; questo termine (gr. kéras, ebr. qeren) è polivalente, indicando insieme il corno,
ad esempio del toro, temibile figura della sua potenza; per traslato, appunto, potenza; e anche luce che brilla
(Sal 74,11), così che Mosè dopo la teofania del Sinai aveva la «faccia cornuta», ossia risplendente della
divina Gloria (Es 34,29-35). L’esistenza del giusto e retto è così assunta nella Luce divina in eterno. Egli è
«figlio della Luce», trasformato nella Luce che è la Vita eterna (v. 9).
La struttura della pericope evangelica è elementare. A parte l’introduzione redazionale tipica della liturgia,
il testo evangelico si compone di tre parti. Anzitutto i due detti, strutturati in modo molto simile, quindi
paralleli:
a) v. 13: Voi siete il sale della terra,..
b) vv. 14-15: Voi siete la luce del mondo…
Infine (v. 16) un’applicazione morale che spiega il secondo lóghion, precisando il senso della luce come
riferimento alle «opere buone».
Nel linguaggio tecnico ebraico questi detti appartengono al genere del mashal, che può essere tradotto con
parabola, ma anche con enigma o proverbio, più genericamente «detto sapienziale». Contengono infatti
osservazioni su realtà della vita comune, applicate in modo metaforico a delle persone, per far venire in
mente un certo messaggio: l’ascoltatore è coinvolto in modo essenziale nel processo di interpretazione del
detto. La terza parte dell’introduzione (5,13-16) continua nello stile della seconda persona plurale
dell’ultima beatitudine («voi siete…»). I detti riguardo al sale e alla luce sono la formulazione di Matteo di
analoghi detti che si trovano in altri testi della tradizione sinottica (Mc 9,49-50 / Lc 14,34-35 per il sale, e
Mc 4,21 / Lc 8,16 per la luce). Assieme all’immagine della «città che sta sopra un monte» i detti servono a
definire meglio l’identità di quelli che seguono fedelmente Gesù. Tale identità è saldamente radicata
nell’identità d’Israele come popolo di Dio (Is 2,2-5). E inoltre ha rilevanza anche per il mondo intero: «sale
della terra», «luce del mondo» che «fa luce a tutti quelli che sono nella casa», e «città che sta sopra un
monte» e che quindi è visibile a tutti.
La breve pericope ora letta è molto densa di significato, e richiama diversi temi strettamente connessi, anche
se non a prima vista. Dopo proclamate le beatitudini, nel suo «discorso della montagna» il Signore prosegue
nel definire direttamente quelli che vogliono essere suoi fedeli, con due appellativi, di cui almeno il primo è
abbastanza problematico: «sale della terra» e «luce del mondo». La difficoltà del simbolismo del sale è un
primo ostacolo alla giusta comprensione del detto di Gesù; le esperienze di ognuno possono far variare
l’opinione che si ha di questo minerale. Prima dell’avvento del frigorifero il sale era considerato un ottimo
conservante; è usato per dare sapore ai cibi; gli antichi contadini e nomadi palestinesi nelle vicinanze del
mar Morto lo usavano per riscaldarsi a causa della sua combinazione col bitume; per noi moderni (ma già
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per gli antichi, Esdra (4,14) chiama i funzionari persiani «coloro che mangiano il sale della reggia») indica
lo strumento economico della sopravvivenza, «il salario»; molto noto il riferimento del «sale della
sapienza», un rito che si era introdotto nel battesimo proveniente dalla superstizione della cultura dei barbari
del primo medioevo, ma del tutto sconosciuto al complesso delle Chiese antiche.
Tuttavia il sale non è benefico alla terra! Come ben sanno i contadini un terreno salsugginoso è del tutto
sterile per le culture agricole; lo stesso dicasi per una falda d’acqua. I nemici che distruggono una città,
spargono il sale sulle sue rovine, nel senso simbolico che dal sale nulla più nascerà.
«Mettere il sale sulle ferite» non significa certo alleviare il dolore di chi già soffre per suo conto; ci
fermiamo qui, ma certamente tutti noi avremmo ancora esempi da proporre.
L’esame del contesto del brano non ci aiuta, in quanto sappiamo essere in una raccolta di detti, certamente
appartenenti a Gesù, ma redazionati da Matteo. Il confronto sinottico invece può dare buoni frutti, forse la
direzione giusta è quella di comparare Mt 5,13 con Mc 9,49-50, un parallelo anomalo, e con Lc 12,49-50,
nonché con Mc 10,38-48, che ha a sua volta il parallelo in Mt 20,22-23.
Esaminiamo il brano
v. 13: Le forme grammaticali alla seconda persona plurale portano avanti il discorso nel modo stabilito in
5,11-12. Il Signore definisce i discepoli come il sale della terra, da intendere come sale «per la terra», sale
destinato perciò ad esercitare una funzione sulla terra, sugli uomini. Se tuttavia questo sale diventa scipito,
«in che cosa sarà salata» la terra? Tale sale scadente e scaduto, per così dire, va «gettato fuori»
dall’ambiente in cui deve funzionare, e può essere calpestato come insignificante da tutti.
Il parallelo con Mc 9,49-50 ci aiuta a comprendere la funzione che sta qui.
Il testo ha contenuto sacrificale. Esso rimanda infatti a Lv 2,13. nel complesso delle «leggi dei sacrifici» (Lv
1-7). La triplice insistenza sul sale, e la precisazione di «salare con sale» mostra che il sacrificio d’offerta,
«memoriale sull’altare, sacrificio di aroma soave al Signore» (Lv 2,2b), il santo dei santi (= realtà
santissima) tra i sacrifici del Signore (Lv 2,3b), deve essere preparato compiutamente, ben condito e ben
cotto, per essere vero sacrificio a cui si partecipa prima spiritualmente, e poi nel convito come segno di
comunione.
Riassumendo Mc 9,49 richiama questo: ogni discepolo deve prepararsi ad essere, con il Signore, questo
sacrificio di aroma soave per il Dio dell’alleanza, redenzione della terra e comunione tra gli uomini. Se il
sale non esplica tale funzione sacrificale, non avrà nessuna rivalutazione «da fuori». Occorre avere questo
sale sacrificale dentro il cuore, ed allora il sacrificio spirituale sarà pace sulla terra.
Continuiamo a camminare nel solco tracciato dai testi paralleli e leggiamo Lc 12,49-50. Il «fuoco»si
riferisce alla Passione, vero sacrificio d’olocausto per il Signore, che scatenerà poi il fuoco dello Spirito (Lc
3,16: «vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco»).
Come abbiamo ascoltato nella Dom. I, il Battesimo del Signore riassume tutta questa prospettiva sacrificale,
nel «segno» della Croce. La sola tesa angoscia del Signore è che il Padre adempia tutto questo.
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Leggiamo ora Mc 10.38-40 // Mt 20,22-23 che richiamano le prospettive adesso presentate; sono le sentenze
(dal gr, lògion) della Coppa e del Battesimo, opposti ai desideri di potere dei due figli di Zebedeo.
I discepoli del Signore fin dall’inizio sono chiamati alla perfetta assimilazione con il loro Maestro. Essere il
sacrifìcio «vivente, santo, accetto, il culto dello Spirito Santo» (cfr Rm 12,1), in favore della terra.
Se questa funzione dei discepoli viene meno, non esiste rimedio.
II Signore lo getterà «fuori»del santuario, nel disprezzo degli uomini.
Tale sacrificio implica la fede, la sofferenza, la via alla perfezione. Paolo, in altra prospettiva, ma in senso
abbastanza coerente con questo tema, griderà ai suoi fedeli che se Cristo non fosse stato resuscitato, oltre
che vana è la fede e vana la predicazione degli apostoli, i cristiani resterebbero ancora a sperare in questa
vita, e cristiani ed Apostoli sarebbero i più miserabili di tutti gli uomini (cfr 1 Cor 15,12-19).
I Padri hanno lasciato preziosi testi sulla loro contemplazione del fuoco che divamperà sulla Croce prima e
poi nella Resurrezione. Poi dal Signore questo fuoco è in rapporto con i i suoi discepoli. Il rinvio è qui alla
Pentecoste, dove di fatto, secondo la rinnovata promessa del Risorto (At 1,5), lo Spirito Santo come fuoco
irrompe sui discepoli, li battezza e li conferma e li consacra per la missione (At 2,1-4).
Il divino fuoco e sale saporito ci devono ricordare che il Padre nel Figlio versa nel cuore dei suoi figli la sua
stessa Carità fedele che è lo Spirito Santo (Rm 5,5) e che così li abilita insieme alla “Divina liturgia”, ossia
all’Evangelo, ad operare le opere del Regno e al culto immacolato.
I Padri interpretano il Sacrificio in rapporto al Fuoco dello Spirito Santo, e quindi i Divini Misteri come
partecipazione a quel Fuoco. Essi ne danno preziose applicazioni per i fedeli. La rassegna di testi numerosi
esula dallo scopo di questa Lectio; qui si riporta qualche tratto, realmente esemplare e illuminante, dei Padri.
CLEMENTE ALESSANDRINO (+ verso il 220), commenta Gv 6,51, «il Pane che Io donerò a voi è la mia carne», e
aggiunge questa considerazione:
A questo Pane si deve dare un senso nascosto. Esso designa anche la stessa carne in quanto resuscitata.
Come il grano spunta quando esce dalla decomposizione [del chicco, Gv 12,24] e dalla semina, così la sua
carne si ricostituisce con il Fuoco, come un Pane cotto per la gioia della Chiesa (Pedagogo 1,6,46,3).
Tra i Padri della grande tradizione delle Chiese sire è comune e frequente il tema del Fuoco dello Spirito
Santo in quanto essenza dinamica in tutti i Misteri (sacramenti) della Chiesa, tuttavia con speciale efficacia
nel Corpo e della Coppa del Signore. Qui si riportano alcuni testi di S. Efrem di Nisibi, detto il Siro (+ 363),
per il suo genio teologico e spirituale detto anche «la cetra dello Spirito Santo» (essi sono ripresi da Pierre
Yousif, L’Eucharistie chez Saint Éphrem de Nisibe, «Orientalia Christiana Analecta» 224, Roma 1984,
pp.263-265).
Nei suoi poemi anche S. Efrem parla del Fuoco dello Spirito Santo in tutti i Misteri della Chiesa. Quanto
all’eucarestia, ecco alcuni esempi. Anzitutto S. Efrem mostra la differenza dell’azione operata talvolta dal
Fuoco divino dell’A. T., e quella del Fuoco che Cristo è venuto «a gettare sulla terra» (Lc 12,49), che è il
Fuoco della divina misericordia. Così nei suoi Inni sulla fede 10,13 modula questi versi:
Il Fuoco discese sul sacrificio d’Elia, e lo consumò [1 Re 18,38],
il Fuoco della Misericordia divenne il nostro sacrificio vivente.
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Il Fuoco consumò il sacrificio,
nella tua Offerta, Signore mio, noi mangiammo il tuo Fuoco!,
così mostrando che i fedeli dal Fuoco divino non sono consumati, bensì, mangiandolo, sono
divinamente nutriti.
S. Efrem accentua il prodigio: nel Pane sta lo Spirito Santo, e nella Coppa sta il suo Fuoco divino. Così
dagli Inni sulla fede 10,8:
Nel tuo Pane è celato lo Spirito, che non può essere mangiato,
nel tuo Vino dimora il Fuoco, che non può essere bevuto.
Lo Spirito nel tuo Pane, il Fuoco nel tuo Vino,
meraviglia singolare che le nostre labbra ricevettero!
Ossia, se per essenza divina lo Spirito Santo e il Fuoco in quanto tali non possono essere mangiati e bevuti
dai mortali, tuttavia la Condiscendenza divina ha operato il singolare prodigio che li ha resi accessibili alla
natura umana.
Della tradizione latina, anche uno dei grandi tra i Padri, dei più letti e conosciuti, S. Agostino, mentre al suo
popolo commenta l’evangelo di Giovanni, qui in particolare Gv 21,12-19, che segue parola per parola,
annota queste postille:
«E venne Gesù e ricevette il Pane e lo dona a essi, e il pesce egualmente» (Gv 21,13). Ecco, è anche
detto con che cosa pranzarono, del quale pranzo diremo anche noi qualche cosa di soave e di salutare,
se Egli nutre anche noi. Sopra era narrato che questi discepoli, quando sbarcarono, videro la Brace
posta sulla terra, e un Pesce postovi sopra e il Pane (Gv 21,9). Dove non va inteso che il Pane fosse
posto sopra le braci, ma solo è da sottintendere che cosa essi videro. Se scrutiamo questo verbo dove
va sottinteso, allora tutto si può dire così: Videro la Brace sulla terra, e il Pesce sopra di essa, e videro
il Pane (Gv 21,9). O piuttosto così: Videro la Brace a terra e il Pesce sopra di essa, e videro anche il
Pane. Per ordine poi del Signore portarono anche i pesci che essi avevano catturato, quelli che Egli
aveva fatto, benché da Giovanni che narra, questo non sia espresso, tuttavia che fosse il Signore non è
taciuto. Infatti disse: Portate i pesci che avete catturato adesso (Gv 21,10). E certo, per ordine suo, chi
crede che non li facesse così? Perciò il Signore fece il pranzo per quei sette discepoli con questo, ossia
con il Pesce che avevano visto posto sulla Brace, a esso aggiungendo i pesci che avevano catturato, e
il Pane che egualmente è narrato che essi videro. Il Pesce arrostito è Cristo sofferente (piscis assus,
Christus passus). Egli è il Pane Vivente che discende dal cielo (Gv 6,51), a Lui è incorporata la
Chiesa per partecipare alla beatitudine eterna, per cui è detto: Portate i pesci che avete catturato adesso
(Gv 21,10), affinché tutti noi che coltiviamo questa speranza, mediante quel numero settenario di
discepoli, in cui in questo luogo si può intendere figurata la nostra comunione, noi sappiamo
comunicare a così grande Sacramento, ed essere associati alla medesima beatitudine. Questo è il
pranzo del Signore con i suoi discepoli, con il quale Giovanni, benché avesse anche molti altri grandi
fatti da dire su Cristo [Gv 21,24-25], come credo, conclude il suo evangelo con la contemplazione di
grandi realtà (Esposizione dell’Evangelo di Giovanni, Trattato 123, sul cap. 21).
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Quanto alla relazione del Fuoco divino con i fedeli, basterà un passo dell’omelia mistagogica del Giorno
della Resurrezione. Adesso S. Agostino si rivolge soprattutto ai suoi neofiti, iniziati a Cristo Risorto nel suo
Mistero la Notte precedente:
L’Apostolo in realtà parla: «Noi siamo molti, bensì un unico pane, un unico corpo» (1 Cor 10,17). Così
spiega il Mistero [sacramento] della Mensa del Signore: «Noi siamo molti, ma un unico pane, un unico
corpo». È provato a voi con questo pane come dobbiate amare l’unità. Poiché questo pane è fatto forse con
un unico chicco? Non erano molti i chicchi di grano? Ma essi prima di venire al pane erano separati; sono
congiunti dall’acqua, dopo una qualche macinatura. Infatti se il grano non è macinato, e non è intriso con
acqua, non giunge affatto a questa forma che si chiama pane. Così anche voi prima dell’umiliazione del
digiuno e del rito dell’esorcismo, eravate quasi macinati. Giunse il battesimo, e siete stati intrisi con acqua
per arrivare alla forma del pane. Tuttavia ancora non esiste il pane senza il fuoco. Che significa dunque il
fuoco, ossia l’Unzione dell’olio? Di fatto il sacramento è il Fuoco nutritore dello Spirito Santo. Negli Atti
degli Apostoli…riflettete quindi, e vedete come deve venire a Pentecoste lo Spirito Santo. E verrà così: Egli
si manifesta nelle lingue di Fuoco [At 2,3]. Infatti ispira la carità della quale noi ardiamo verso Dio e
disprezziamo il mondo, e per la quale la nostra paglia sia bruciata e il cuore sia purgato come l’oro [Mt
3,12; Lc 3,17]. Giunge perciò lo Spirito Santo, dopo l’acqua [del battesimo] il Fuoco, e voi diventate il pane
che è il corpo di Cristo. E così in qualche modo è significata l’unità (Sermo 227, De sacramento, habitus in
Die sancto Paschae, Coll. «Sources Chrétiennes» 116, Paris 1966, testo latino pp. 236 e 238).
Dai testi citati sopra esplicitiamo due riflessioni:
- la celebrazione eucaristica non è gelida, ma è la vampa del fuoco divino che incendia l’esistenza
fedele redenta (cfr. il rito dello zeon nella lit. bizantina); tutto questo poi si deve condensare nella
vita quotidiana di preghiera, che fa restare acceso il Fuoco della Carità dello Spirito Santo donato
fedelmente nell’Iniziazione (Rm 5,5). - il Fuoco onnipotente dello Spirito Santo immediatamente si spegne davanti al rifiuto degli uomini e
così il sale diventa insipido perché si mischia alle impurità dei nostri peccati venendo meno alla
prima beatitudine la povertà in quanto allo Spirito che ci vede rinunciare e farsi fare poveri per
riempirsi di Spirito scegliendo invece le impurità del mondo.
Tutto questo per amore, poiché lo Spirito Santo, che è la Libertà di Dio, rispetta la libertà degli uomini che
ha creato. Ma guai per chi opta per il gelo e la scipitezza dell’esistenza.
Tra tanto attivismo moderno che invade ogni aspetto della vita della Chiesa, la necessaria (e ancora
inesistente) «scuola di preghiera», che si deve istituire in ogni parrocchia, potrà portare molta ricchezza
spirituale. Il Fuoco divino infatti viene dalla preghiera di Cristo Signore e resta acceso nella preghiera dei
suoi discepoli e di continuo brucia distruggendo i malsani comportamenti della vita materiale e spirituale
creando quel “cuore nuovo (cfr Sal 50) sempre giovane, capace del divino, cioè capace di amare.
v. 14: La seconda definizione è altrettanto piena di responsabilità: i discepoli come «luce del mondo», sono
in tutto assimilati anche da questa parte con il loro Signore, il Verbo Luce Vita (cfr Gv 8,12), e poi Luce
delle nazioni (Lc 2,32; cfr III Dom. per annum).
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Lo sfondo è Is 2,2-5. L’immagine della luce fa parte dell’invito rivolto a Israele: «Casa di Giacobbe, vieni,
camminiamo nella luce del Signore» (2,5). In Is 42,6; 49,6 Israele è chiamato ad essere una «luce per le
nazioni». Paolo riprende questo tema della vocazione di Israele in Rm 2,19 («luce di coloro che sono nelle
tenebre»). L’immagine della luce è ulteriormente sviluppata nei detti di Mt 5,15-16 nei quali i seguaci di
Gesù sono esortati a mettere in mostra davanti alla gente le loro «opere buone». Lo scopo di ciò è che altra
gente possa essere indotta a dar gloria a Dio (5,16). L’appellativo «il Padre vostro che è nei cieli» è
caratteristico di Matteo rispetto agli altri autori del NT e rappresenta un tipico modo ebraico di rivolgersi a
Dio nella preghiera.
I discepoli debbono diventare «figli della Luce» (Ef 5,8; Fil 2,15). Nel giudaismo tale immagine veniva
riferita volentieri alla Legge o al Tempio, come anche ad eminenti personalità religiose. II paragone con la
città posta su un alto monte ha sicuramente diretto il pensiero degli uditori alla città di Gerusalemme,
adagiata sul «monte del Signore» da dove si irradiava la luce salvifica della «parola di YHWH» (cfr Is 2,2-
3). Nell’AT. si afferma che Israele è «luce delle genti» (Is 42,6), ora qui si afferma che questa prerogativa
dell’antico Israele è condivisa anche dal nuovo popolo di Dio costituito da tutti coloro che “ascoltano” la
Sua Parola.
v. 15: L’altro paragone è la luce accesa, la quale non è ricoperta dal moggio (recipiente per misurare il
grano, usato anche come mensola) ma è posta in alto affinché risplenda in tutta la casa (cfr Mc 4,21; Lc
8,16; 11,33). Questa espressione è facilmente comprensibile se facciamo riferimento alle usanze del tempo
di Gesù: la fiamma allora si otteneva dai grassi, e spegnere con un soffio una di quelle lampade voleva dire
riempire la stanza d’un puzzo insopportabile.
Per questo si usava mettere un moggio o un altro recipiente che fosse a portata di mano sulla fiamma,
ottenendo che si spegnesse per mancanza di ossigeno senza mandare cattivo odore. Cristo dice
semplicemente che la luce non dev’essere spenta, ma deve illuminare sempre.
v. 16: Ecco le motivazioni che il Signore dà di questa funzione: tale luce deve sfolgorare davanti agli
uomini come esempio efficace. È luce che emana dalle opere buone, che attuano il senso profondo del
sacrificio; gli uomini le attendono e finalmente le vedono, e pieni di riconoscenza daranno gloria al Padre
nostro nei cieli (cfr. Rm 14,18; Fil 2,15; Fm 6; Ef 5,8-9; 1 Pt 2.12). Glorificare il Padre è lo scopo finale
della salvezza, è entrare in comunione con Lui (cfr Lc 7,16; Gv 15.8: 2 Cor 9.13: Fil 1,11). I discepoli come
figli portano così altri figli al Padre, ma seguendo sempre il Figlio Unico.
E allora sorge la domanda se anche noi cristiani non sosteniamo un sistema che è ingiusto e oppressivo dei
debole e del povero. La povertà del terzo mondo e la geografia del sottosviluppo non si spiegano parlando di
rifiuto della tecnica o di pigrizia congenita e irrimediabile, ma del secolare sfruttamento delle materie prime,
della sottomissione forzata ad una razza, del commercio internazionale basato sull’intimidazione o sul
boicottaggio, sugli «aiuti» internazionali come modo di disfarsi utilmente di merci inutili. E allora rimane
un interrogativo: la luce di Cristo illumina ancora questo «mondo» o non invece un «mondo nuovo» verso il
quale dobbiamo muoverci come in un esodo? La comunità cristiana d’oggi rischia di nascondere sotto
pesanti schermi la luce di Cristo. La non-coscienza della solidarietà nella testimonianza, il disinteresse per
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una espressione comunitaria della nostra fede, la politica del lavarsi le mani dei fatti in cui non si giocano i
nostri interessi, l’intervento ingenuo in difesa dell’«ordine costituito» impediscono alle nostre comunità
ecclesiali di fare luce. E necessaria una continua riflessione affinché le strutture non diventino schermo o
controtestimonianza della nostra Chiesa. E la riflessione deve divenire azione, con saggezza ed efficacia, per
non distruggere nulla di valido, per far germogliare i semi di bene che sono presenti dovunque e che
attendono un buon terreno.
II Colletta:
O Dio, che nella follia della croce
manifesti quanto è distante
la tua sapienza dalla logica del mondo,
donaci il vero spirito dell’Evangelo,
perché ardenti nella fede e instancabili nella carità
diventiamo luce e sale della terra.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…
lunedì 30 gennaio 2023
Abbazia Santa Maria di Pulsano