Giulio Michelini Commento al vangelo della VI domenica del Tempo ordinario

VI Domenica del Tempo Ordinario A  🏠

Mt 5,17-37; Sir 15,15-20; Sal 118,1-2.4-5.17-18.33.34; 1 Cor 2,6-10

Siamo ancora nel contesto del c.d. discorso della montagna, il primo discorso di Gesù nel vangelo secondo Matteo. Dopo le Beatitudini, ecco che in questa domenica il Gesù del Primo vangelo enuncia alcuni principi generali (5,17-20), che reggono tutta questa parte. Come presupposto di quello che si leggerà si devono tenere presenti almeno due elementi fondamentali. Il primo: la Legge o, in ebraico, Torà, è il dono più grande che Dio abbia fatto ad Israele. Con esso è data la possibilità agli uomini e alle donne che si affidano a Lui di vivere nella giustizia, conformemente alla volontà di Dio. Da questo punto di vista, non vi è alcuna opposizione tra Legge Vangelo, e Gesù stesso può essere considerato come la Torà vivente. In questo senso, i toni che si possono trovare in alcune lettere di Paolo, come quella ai Galati, a riguardo della salvezza per le opere della Legge o per la fede, sono estranei al vangelo secondo Matteo, pensato per una comunità che non vuole staccarsi dal Giudaismo. Quello che Paolo dice va dunque visto in funzione dei lettori a cui si rivolge: pagani che, in quanto tali, non erano obbligati ad osservare la Legge, e quindi potevano entrare nell’alleanza con Dio attraverso la fede in Gesù Cristo. Il secondo elemento da tenere presente è che il Gesù di Matteo attualizza la Legge per renderne possibile la sua applicazione, e perché questa non rimanga lettera morta. Gesù, come vedremo subito, va al cuore della Legge, cogliendone gli elementi fondamentali che potrebbero sfuggire a chi la volesse osservare nella sua integrità.

Ai principi fondamentali di cui si è detto seguono sei casi concreti (sei esempi) di interpretazione della Torà (5,21-48), introdotti ogni volta da una citazione dal Primo Testamento («avete inteso che fu detto»), ripresa e commentata da Gesù («e io vi dico»). Noi evitiamo, con studiosi come Aaron M. Gale e altri ancora, a riguardo degli esempi presentati da Matteo in 5,21-48, di parlare di “antitesi”, e preferiamo l’idea di “attualizzazione” o, meglio, in senso ancora più tecnico, di “intensificazione” dei precetti, paragonabile a quelle previste nella Mishnà quando si deve “fare una siepe attorno alla Torà” (Mishnà, Avot 1,1). Il precetto deve essere custodito (protetto da una siepe), ma anche spiegato e arricchito (dalla Torà orale, quella che Gesù dà ora dal monte), perché sia vissuto da ogni generazione, tenendo conto dei cambiamenti. Per entrare in un caso semplice ma concreto: i rabbini avevano proibito anche solo di maneggiare alcuni utensili in giorno di sabato (divieto non presente nella Torà, che in verità si limita a poche proibizioni per questo comandamento), per evitare che attraverso di essi si compisse un lavoro.

Il caso dell’omicidio in 5,21-25 è, a riguardo, illuminante. Gesù ovviamente non nega il comandamento ricevuto (e dunque, è forse meglio tradurre «e ora io vi dico», piuttosto di «ma io vi dico» o «e invece io vi dico», che può creare fraintendimenti), ma per evitare una potenziale interpretazione riduttiva, ne intensifica il valore considerando omicidio ciò che, strettamente parlando nella norma del decalogo (Es 20,13 TM), non lo è. Se nella Legge si dice “semplicemente” di «non commettere volontariamente un omicidio», per Gesù l’omicidio è anche trattare male il prossimo.

La procedura esegetica che il Gesù di Matteo adotta è rabbinica, ma il contenuto di quanto dice non sempre è in accordo con i farisei, come si può vedere a proposito della discussione sul lavarsi le mani in 15,1-20 e di quella sul divorzio (vedi commento a 19,3-12).

Gesù, dunque, bisogna ripeterlo, non abolisce la Torà, ma propone una giustizia più radicale di quella di scribi e farisei (5,17-20). Gesù è venuto a confermare la Torà, nel senso che ne rivela il significato pieno che corrisponde all’intenzione del “legislatore” (Dio stesso), conformemente a quanto ci si aspettava dal Messia. Ma questo non esclude che Gesù confermi la Torà in quanto la osserva pienamente, rinnovandola e trasfigurandola: «Gesù, il Messia d’Israele, il più grande quindi nel regno dei cieli, aveva il dovere di osservare la Legge, praticandola nella sua integrità fin nei minimi precetti, secondo le sue stesse parole. Ed è anche il solo che l’abbia potuto fare perfettamente» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 578). La Torà viene riportata da Gesù alla sua finalità originaria, e gli esempi sui quali si esercita il Messia vogliono proprio mostrarne la possibilità: si veda quello visto sopra, col quale Gesù non intende in senso restrittivo l’omicidio, ma lo vede in ogni male fatto al fratello.

Se Gesù non contesta la Torà in sé, si deve piuttosto dire che l’evangelista Matteo è in polemica con alcune delle linee esegetiche rabbiniche a lui contemporanee, come si evincerà soprattutto dalle parole dure che Gesù rivolgerà ai farisei nel cap. ventitreesimo. Riprova ne è che per la questione sul divorzio, rispetto all’analogo racconto di Marco, Matteo farà intervenire Gesù nel campo dell’annoso dibattito sull’interpretazione di un testo del Deuteronomio, che al tempo divideva proprio i farisei. Ecco dunque il significato dei vv. da 18 a 20, in cui sono enunciati altri principi derivanti dal primo in Mt 5,17, e che si chiudono con l’indicazione su come i discepoli di Gesù dovranno interpretare la Torà, seguendo l’esempio del maestro: con un’ermeneutica che supera quella dei farisei e degli scribi – detentori, al tempo in cui Matteo scrive, dell’autorità sull’interpretazione – per evitare così i giudizi erronei in cui spesso questi incorrono (cfr. p. es. Mt 15,7; 22,18), e soprattutto per trovare e attuare il senso profondo della Parola di Dio.

Giulio Michelini ofm

Fonte:http://www.lapartebuona.it/