II Domenica di Pasqua (Anno A)  (16/04/2023)

Vangelo: Gv 20,19-31

La II domenica di Pasqua conclude il periodo di otto giorni – l’Ottava – iniziato con la risurrezione di Gesù e considerato liturgicamente come un unico giorno «fatto dal Signore» per introdurci nella vita, senza male e senza morte. Inoltre, oggi è pure la festa della Divina Misericordia, perché la vita può nascere ed affermarsi solo grazie all’amore.

Una comunità che va “rigenerata alla speranza”

Il brano evangelico di oggi (Gv 20,19-31) ci porta al primo giorno della settimana, la comunità dei discepoli è scossa e dubbiosa: in base alle testimonianze di Maria di Magdala, di Pietro e del discepolo amato, il sepolcro è vuoto e Gesù è risorto (Gv 20,1-18). Ma come credere a queste parole se Gesù comunque non si fa vedere? In più, i discepoli hanno timore di ciò che i Giudei potrebbero fare loro, in quanto seguaci di Gesù, e stanno chiusi nella stanza delle loro paure, sospesi tra un annuncio che è poco credibile ed una paura, fondata, di andare incontro alla sofferenza ed alla persecuzione.

L’oscurità della disperazione non può scendere, però, definitivamente nel cuore dei discepoli ed allora la sera dello stesso giorno, un giorno che è ormai senza tramonto, Gesù appare loro: entra, attraversando le porte chiuse di tutte quelle difficoltà che sembrano insormontabili, e sta in mezzo perché verso di lui si deve convergere per ritrovare la via della speranza e della vita. I discepoli provano in se stessi qualcosa di nuovo, di diverso rispetto a prima: ora gioiscono, vedendo Gesù, e lo riconoscono come Signore, come colui al quale si può affidare la propria vita, un signore che non rende schiavi ma figli ed eredi dell’eternità.

Gesù porta in sé le ferite della passione per dimostrare che lui abbraccia la sofferenza per liberarla dall’insensatezza e dalla morte e si rivolge ai discepoli donando la pace e lo Spirito Santo: sono doni d’amore per generare amore, sono segno di quell’amore che si trasforma in perdono e diviene capace di rimettere il male.

«Mio Signore e mio Dio!»

Tuttavia, uno dei discepoli quella sera è assente: è Tommaso, il quale non si accontenta di ciò che gli dicono gli altri discepoli («abbiamo visto il Signore!»), ma vuole vedere e toccare, con le proprie mani e con i propri occhi.

Otto giorni dopo, Gesù appare anche per Tommaso: anche lui ha bisogno di avere il cuore rigenerato dalla speranza e dall’amore, scendendo nel dolore redento e risorto alla vita dal Maestro. Tommaso vede, tocca, crede ed esclama: «Mio Signore e mio Dio!» le sue pretese sono soddisfatte, la sua fede è piena. Gesù, prendendo spunto dall’esperienza di Tommaso, mette in guardia i discepoli (di ogni luogo e di ogni tempo), dichiarando «beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».

Tommaso nostro gemello. La fede nasce dall’amore

Tommaso è detto Didimo, che, come sappiamo significa «gemello». Ed in effetti, lui assomiglia tanto a noi, è nostro gemello, condividendo le nostre incredulità e i nostri dubbi: anche noi vorremmo toccare e vedere per credere, per renderci conto che Gesù è realmente vivo. Eppure lui ci ricorda che la fede non è una beatitudine fondata sull’impossibile. Si tratta di toccare e di vedere in un modo nuovo: attraverso l’amore.

Questo ci conduce a due considerazioni:

  1. l’amore va conosciuto, riconoscendo Gesù. L’amore è una Persona, ha un volto, quello di Dio, rivelatosi nel Figlio Gesù. Lui si fa conoscere attraverso la misericordia, attraverso il suo cuore semplice che incontra gli umili per circondarli della sua tenerezza. Quando siamo semplici, vediamo abbastanza in profondità per riconoscere, nel vero amore, la presenza di Gesù, che salva e dona vita. E la misericordia, donataci attraverso Gesù, trova dimora in noi.
  2. dobbiamo vedere e toccare l’amore per vedere e toccare Gesù. Come, quando e dove si vede e si tocca l’amore, per arrivare fino a Gesù? Le ferite e le piaghe del Cristo risorto sono visibili e tangibili nelle ferite fisiche, morali e spirituali di tanti nostri fratelli e sorelle; l’amore si trova nella carne viva della Parola e dell’Eucaristia, nel ristoro sanante del perdono che diviene capace di ricevere e donare pace e riconciliazione, nella comunità che vive unita e con fervore (I Lettura). Vedere e toccare significa entrare in queste esperienze e lasciarci coinvolgere, per una misericordia che è sempre più fraterna. Per misericordia esistiamo, verso la misericordia dobbiamo tendere: essa è «l’unico argine al male» (san Giovanni Paolo II), è la strada che ci porta alla vita, è il sigillo che ci rende persone vere: discepoli di Gesù, figli della pace, amici del perdono e fratelli fra noi.

Il brano evangelico di oggi ci parla infine di altri segni non riportati nel vangelo: questi segni avvengono ancora oggi se mettiamo Gesù in mezzo al nostro cuore e se rendiamo la misericordia cuore delle nostre dinamiche quotidiane. Diveniamo attualizzazione del Vangelo, permettendo che la fede in Gesù, Figlio di Dio, sia sempre viva e attuale in ogni tempo e generazione.

Per riflettere

  • Cosa abita nel mio cuore: paura, incredulità o speranza, gioia?
  • Quali porte chiuse sta incontrando il Signore in me?
  • Gesù sta “in mezzo” al mio cuore, è Signore della mia vita?
  • Tocco le piaghe del Signore, accetto che lui è un Re umile?
  • Tocco le piaghe di Gesù nei deboli per consolare ed amare?
  • La mia fede si sforza di essere beatitudine che crede anche senza vedere?
  • Considero che il Signore è rintracciabile nella semplicità (la “brezza leggera” nella quale Elia trova Dio)?
  • Dove mi riesce più facile trovare Gesù attraverso l’amore: nel perdono, nell’impegno a favore dei poveri, nella Parola di Dio, nella comunità, nei sacramenti, ecc.?
  • Quali segni avvengono grazie alla mia disponibilità: segni per la vita o per il male?
  • Che visibilità trova il messaggio evangelico attraverso la mia testimonianza?
  • Cos’è per me la misericordia: una debolezza o una risorsa?
  • Cerchiamo l’amore di Gesù per trasformarlo in carità fraterna?

Fonte:https://www.figliedellachiesa.org/