III Domenica di Pasqua (Anno A) (23/04/2023)
La liturgia di questa terza domenica di Pasqua ci fa riscoprire il senso di essere Chiesa, comunità pellegrina nel mondo con ogni stato d’animo, carichi di sconforto mentre ci si avvia verso Emmaus o con la gioia nel cuore quando si ritorna a Gerusalemme per condividere l’incontro con il Signore risorto. Perché anche se è un’esperienza personale che coinvolge il cuore, che ci suscita speranza e ci rianima dalle delusioni è soprattutto ciò che ci riporta a una comunione con Lui e riconduce sicuramente a una comunione tra noi, per camminare insieme e confortarci e sostenendoci gli uni con le esperienze degli altri.
L’evento e il mistero della resurrezione non è mai un evento di salvezza personale ma universale. Siamo cristiani e siamo Chiesa perché è giunto fino a noi che il Figlio di Dio si è fatto uomo ed è morto e risorto per la nostra salvezza. Siamo debitori di questo verso chi ce lo ha annunciato.
L’evangelista Luca in questo brano sembra farci ripercorrere non solo il vissuto di questi due discepoli: Clèopa e il suo compagno ma, piuttosto, farci guardare le nostre dinamiche personali di relazione con il Signore e con i fratelli. Ci allontaniamo facilmente da situazioni e relazioni che non sono come speriamo, ci facciamo delle pre-comprensioni che a volte si scontrano fortemente con la realtà. Eppure è proprio in questi momenti il mettersi in cammino, per strada, può fare la differenza per comprendere e riconciliarci con le nostre esperienze.
Siamo continuamente in cammino per desiderio di ricerca e di senso, anche nell’inquietudine, nello sconforto, e nella delusione non riusciamo proprio a restarcene fermi. Quel desiderio di incontro Dio lo ha seminato nel nostro cuore e lo alimenta al di là delle forze e delle capacità che abbiamo, superando ogni logica umana e ragionevole. Più ci allontaniamo più viene a cercarci e si fa pellegrino con noi. Questi due discepoli che probabilmente come gli altri avevano lasciato tutto e tutti per seguire Gesù, il maestro, il Messia, sono rimasti spiazzati dall’evento tragico della sua passione tanto che non riescono a restare fermi, con gli altri a Gerusalemme, rintanati nel cenacolo. La loro speranza di vedere un messia-liberatore, come Mosè sembra svanita, lo hanno visto consegnato, condannato crocifisso e morto. Tutto è finito non c’è più speranza. La loro fede in quel Gesù potente in parole e in opere si è fermata davanti alla realtà drammatica della sua passione e morte. Neanche il racconto delle donne li ha consolati o scossi né un sepolcro vuoto li ha fatti sperare. Questo perché non basta un racconto, serve un incontro e il Signore lo sa. Sembra proprio che non ci fidiamo delle parole e dei fatti ma, abbiamo bisogno di un’esperienza personale forte e profonda, che ci coinvolga i sensi, che sia innegabile. Solo così riusciamo a rileggere il nostro vissuto.
Questi due discepoli tristi si mettono in cammino verso Emmaus accecati dall’amarezza, ma per strada. Discutono tra loro e sembra che girino intorno a sé stessi senza una via d’uscita senza ritrovare la speranza. Quante volte questo capita anche a noi? Più stiamo là a lamentarci di ciò che è successo, di ciò che ci ha deluso, perché non era come speravamo, di chi e come; e in più finiamo per non capirci il senso e ci sentiamo sprofondare senza via di scampo. Eppure la cosa che più mi stupisce è che il cuore di questi due pellegrini, seppur polemico non si chiude, non appena uno sconosciuto gli si accosta riescono ad aprire la loro relazione e lo accolgono, lo fanno partecipe dei loro discorsi e soprattutto lo ascoltano, beccandosi anche una sonora strigliata.
Gesù non si lascia fermare davanti a niente. Ci raggiunge in punta di piedi proprio sempre, lì dove siamo, lì come siamo. Non si mette dietro di noi né avanti ma a fianco, come gli amici, come chi ci vuole profondamente bene. I discepoli si stupiscono che questo sconosciuto non sappia ciò che è successo. Li lascia raccontare e si sentono ascoltati, condividono a parole quello che provano, quello che hanno o meglio non hanno capito. Lui è capace di empatizzare con loro. Avevano bisogno di qualcuno che gli risintonizzasse il cuore. Tutto qui. Avevano il cuore rallentato. Gesù li rianima. Ripercorre con loro non solo gli ultimi giorni nei quali si erano impantanati ma rilegge tutta la storia della salvezza del popolo d’Israele. Da Mosè a tutti i profeti. Attraverso la scrittura li tira fuori dalla loro esperienza personale, dà senso a quei fatti che li avevano così tanto sconvolti per ridonargli quell’identità comunitaria, di gruppo, di popolo prescelto, che avevano dimenticato di essere allontanandosi da Gerusalemme. Gesù non generalizza gli eventi ma li personalizza. Rivela in tutte quelle scritture ciò che lo riguarda ciò che rivela profondamente la sua identità di Cristo scrollando dal cuore dei discepoli quell’ideologia di potenza che schiaccia tutto e tutti pur di prevalere. Il Messia è il figlio di Dio fatto uomo, non il figlio dell’uomo fatto Dio.
A questo punto, liberi dall’angoscia sono loro che devono ascoltarsi dentro. Gesù non impone la sua presenza, ma suscita il desiderio di stare con lui, e fa come se dovesse andare più lontano.
Sembra sentire il loro cuore che freme e sono loro a chiedere a quel saggio pellegrino di fermarsi. Per l’esattezza insistono, si mettono in gioco, vengono fuori e sorprendentemente Gesù si lascia trattenere.
Resta con loro a tavola attorno alla quale si comporta da padrone di casa e non da ospite: prende il pane, recita la benedizione, lo spezza, lo offre.
Ora è tutto chiaro: è il Signore. Quel memoriale si fa memoria viva e reale nel cuore dei discepoli, e si aprono i loro occhi e solo ora lo riconoscono. Solo ora sono in grado di decifrare tutta la loro esperienza.
È il memoriale di ogni celebrazione Eucaristica, è lo stesso memoriale che si compie davanti ai nostri occhi ogni volta sull’altare. Riusciamo anche noi a riconoscerlo? Riusciamo anche noi a farci sobbalzare il cuore? Ci lasciamo cambiare direzione?
Il loro cuore da lento diventa scattante. Fanno ritorno a Gerusalemme dagli undici e dagli altri con cui possono condividere e da cui ascoltano che il Signore è risorto veramente.
Dio verrà sempre a cercarci, sia se timorosi restiamo rinchiusi nel cenacolo, sia se ci mettiamo in cammino per allontanarci e ritornare alla nostra quotidianità come se non fosse accaduto niente come se non avessimo incontrato nessuno.
Ripercorrendo la nostra esperienza personale possiamo anche noi dire lo stesso?
Fonte:https://www.figliedellachiesa.org