IV Domenica di Pasqua (Anno A)  (30/04/2023)

Vangelo: Gv 10,1-10 

C’è una rivendicazione da parte di Gesù su questa immagine del pastore,
quasi di un marchio che appartiene solo a lui, un invito a non nominare
il nome di Dio invano e a non usare a sproposito l’immagine del

pastore.
“Io sono il buon pastore”, il pastore “bello” secondo il testo greco, la bellezza del pastore sta in
me, dice Gesù. Stiamo ben attenti a non sostituirci a lui, a non voler prendere il suo posto.
L’apostolo Pietro è esplicito: “In nessun altro c’è salvezza”. “Non vi è infatti altro nome sotto il
cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati”. E ancora: “Non possiedo né argento né
oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina! E, presolo per la
mano destra, lo sollevò”.
La forza che ha fatto rialzare lo storpio viene da Gesù, viene da quella pietra che gli uomini hanno
scartato. Ripercorrendo la metafora del pastore mi viene spontaneo ricordare due parole che
hanno la luce e la forza di farci intuire le caratteristiche del pastore, due parole che sembrano in
contraddizione: la fortezza e la tenerezza.
Resiste ancora una certa iconografia un po’ dolciastra del buon pastore, come se il suo fosse un
andare quasi passeggiando con la pecora sulle spalle. La vita di Gesù, lo sapete meglio di me, non
è stata una passeggiata, ha affrontato il lupo che rapisce e disperde. Gesù da buon pastore ha
affrontato i mercenari, quelli che si presentano con il titolo di pastori, ma ai quali interessa solo il
denaro. Gesù li ha affrontati e ha lottato per difendere le pecore e difenderle anche fino alla
morte.
Quando vide venire il lupo non abbandonò il gregge ma lo difese fino alla croce. Questa è la
fortezza e insieme è anche la tenerezza del pastore che conosce ed è conosciuto. Gesù consolava e
fasciava le ferite della vita. Alleggeriva i pesi quando gli altri aggiungevano peso a peso, e
rallentava il passo perché nessuno del gregge rimanesse indietro o si perdesse, neppure i più
deboli.
Fortezza e tenerezza, le due carezze che ancora oggi Gesù ha per noi; perché fortezza e tenerezza
fanno il pastore. E dobbiamo ricordarlo, e ricordarlo a noi sacerdoti e a noi educatori della fede.
Ma forse dobbiamo ricordarlo ad ogni autorità. Nell’antichità, il pastore era il re. Se manca
fortezza, se manca tenerezza, si usurpa il titolo di pastore e di re.
La fortezza spiazza i mercenari, perché è dei forti intravedere anche da lontano le aggressioni al
patrimonio di valori dell’umanità. Oggi circola un’angoscia esistenziale, la depressione, il
disfattismo che ci stritola e non ci lascia più vivere. C’è bisogno di tenerezza in un mondo spietato
come il nostro. La divina tenerezza è pace misericordiosa. È una mano dolce, materna e paterna
che conosce, conforta, ripara e rimette in piedi e dà fiducia.
E’ uno sguardo simile a quello di una madre sul figlio che nasce. È orecchio attento e discreto che
non spaventa, che non giudica, che sceglie sempre il buon sentiero. La tenerezza è salda come la
buona terra, su cui tutto riposa. È il luogo sicuro, dove io smetto di fare paura a me stesso. La
divina tenerezza tutto salva e tutto vuol salvare e non dispera di nessuno, crede che c’è sempre
una strada. Senza sosta, continua a generare, a curare, a nutrire, a rallegrare, a confortare.
Perché la tenerezza è vita, la tenerezza è speranza.