Pentecoste (Anno A) – Messa del Giorno (28/05/2023) Vangelo: Gv 20,19-23
Probabilmente il vangelo di Giovanni finiva qui, con l’incontro a porte chiuse con l’apostolo Tommaso e il dono della pace a tutti gli apostoli. Solo in un secondo tempo si è voluto aggiungere il capitolo 21 con un’altra apparizione di Gesù al lago di Tiberiade e con la riabilitazione dell’Apostolo Pietro. Forse.
La prima comunità cristiana venne idealizzata, “un cuor solo, un’anima sola, tutto… in comune”, ma alle origini ha avuto tanti problemi di fede e ha attraversato il mare delle paure. Non è
bastata la prima apparizione di Gesù risorto. Otto giorni dopo le porte sono ancora chiuse e c’è la fatica proprio di uno dei suoi, l’apostolo Tommaso, con i dubbi e le resistenze a credere.
Come se Gesù volesse aprirci gli occhi sui problemi che riguardano la fede e che ci avrebbero accompagnati nel tempo. Non è facile ma faticoso il cammino e l’approdo alla fede.
Dopo la stagione della sua presenza sulle strade della Palestina ecco aprirsi il tempo di una diversa presenza di Gesù, per la quale non bastano gli occhi della carne, occorrono gli occhi della fede: “Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno”.
La presenza di Gesù era cambiata, si era come trasformata. Lo possiamo intuire da quel venire di Gesù “a porte chiuse”. Dove decisiva, sempre più decisiva, è la porta del cuore che va aperta: “Ecco, sto alla porta e busso” – è scritto nel libro dell’Apocalisse – “se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me”.
Era come se Gesù volesse educarci e abituarci a questa sua presenza nuova, a questo suo nuovo modo di venire e stare, che è quello delle nostre liturgie, di otto giorni in otto giorni, dove le porte sono chiuse e decisiva, sempre più decisiva, è la porta del cuore, la porta del tuo cuore, quando gli occhi non ci sorreggono, ma ci sorregge la fede.
A volte penso che le nostre liturgie sono talvolta consumate dall’abitudine. Purtroppo.
Dovremmo chiederci se sono celebrazioni abitate dalla presenza di Gesù, come la casa degli apostoli. “Venne”, è scritto, “stette nel mezzo e disse: pace a voi”. Così il primo giorno dopo il sabato, così otto giorni dopo, così di otto giorni in otto giorni.
Anche oggi! Viene, sta in mezzo a noi e dice: “Pace a voi”. Perché sa che sono tante le paure che ci abitano, sono tanti i dubbi che ci tormentano, sono tante le ferite che sanguinano. Dice: “Pace a voi”. Siamo qui a ritrovare la pace per rientrare nelle case, nella vita, nella comunità, con più pace nel cuore.
E Gesù viene, anche se in mezzo a noi c’è Tommaso. Che bello che sia così! Perché Tommaso siamo un po’ tutti! Tommaso è ognuno di noi. Di noi che sentiamo vera e nostra la preghiera del padre del ragazzo indemoniato raccontata in un vangelo. “Credo, Signore. Ma tu aiuta la mia incredulità” (Mc 9, 24).
Siamo qui, come Tommaso, con la nostra sete di vedere e di toccare. E cosa ci risponde Gesù?
“Tendi la tua mano e mettila nel mio costato”. “Costato” è una parola bellissima, è la stessa
parola che ritroviamo quando si dice che il soldato, vedendo che Gesù era già morto, “gli colpì il fianco” il costato, “con la lancia e uscì sangue ed acqua” (Gv 19, 33-34).
Anche quel soldato vide ma è un vedere diverso, è il vedere del soldato romano che constata la morte. Invece il vedere dei discepoli è di chi dal sangue, dalla morte, vede fluire l’acqua, il dono della vita. Il soldato compila e sottoscrive un certificato di morte. Il discepolo scrive il vangelo, la buona notizia della vita.
E noi? Constatiamo, a volte, la morte della fede (nostra o altrui) o, nonostante tutto, contro tutte le apparenze, scorgiamo già i germogli di vita?
Non è un gioco di parole, ma quanto ti sono “costato”, mio Signore e mio Dio? “Ahi, quanto ti costò l’avermi amato!”