Don Luciano “Labanca la sfida di rimanere”

VI Domenica di Pasqua (Anno B)  (05/05/2024)Liturgia: Atti 8,5.8.14-17; 1Pietro 3,15-18; Giovanni 14,15-21

La pagina evangelica di questa domenica, attraverso il discorso di Gesù che approfondisce la similitudine della vite e i tralci, ci conduce all’interno della vita trinitaria. Il Padre e il Figlio si amano in maniera infinita, tanto che lo stesso amore tra di loro è così forte da essere una Persona, lo Spirito Santo. Questo amore, poi, dal cuore della Trinità si espande sull’uomo, che diviene destinatario di questo abbraccio divino. Il dono infinito di Dio richiede che l’uomo lo accolga liberamente e che altrettanto liberamente rimanga in esso. Non è mai facile rimanere. Spesso siamo portati a fuggire, a cambiare aria, a cercare nuove esperienze e nuovi incontri. L’invito di Gesù a rimanere in lui, nel suo amore, si traduce in qualcosa di molto concreto: l’osservanza dei comandamenti. Lui stesso, rimane nel Padre, perché è profondamente unito alla sua volontà. E questa volontà non è un’idea, un concetto astratto, ma il progetto di salvezza per l’umanità. In questa comunione con il Padre Gesù vive la vera gioia e tale gioia senza fine diventa una possibilità anche per ciascuno di noi. Rimanere e osservare i comandamenti, lo sappiamo, può essere difficile, ma è quella la chiave della vera gioia che non conosce tramonto! Il comandamento è amore vicendevole, aperto al dono della propria vita per gli altri. E questo amore è la base dell’amicizia con Gesù. Dovremmo imparare a riscoprire sempre questo modo di relazionarci a Lui! La nostra amicizia con Gesù non è alla pari: Egli è Dio e noi uomini! È per questo che non siamo stati noi a sceglierlo, ma è Lui che ha scelto noi, e se rimaniamo nel suo amore, potremo davvero portare frutto.

Bene-dire (a cura di don Francesco Diano)

Noi delle strade siamo certissimi di poter amare Dio sin quando avrà voglia di essere amato da noi. Non pensiamo che l’amore sia una cosa che brilla, ma una cosa che consuma; pensiamo che fare tutte le piccole cose per Dio ce lo fa amare altrettanto che il compiere grandi azioni. D’altra parte pensiamo di essere molto male informati sulla misura dei nostri atti. Non sappiamo che due cose: la prima, che tutto quello che facciamo non può essere che piccolo; la seconda, che tutto ciò che fa Dio è grande. Questo ci rende tranquilli di fronte all’azione. Sappiamo che ogni nostro lavoro consiste nel non gesticolare sotto la grazia, nel non scegliere le cose da fare, e che Dio agirà per nostro mezzo. Non c’è niente di difficile per Dio, e chi teme la difficoltà si crede capace di agire. Poiché troviamo nell’amore un’occupazione sufficiente, non abbiamo cercato il tempo per classificare gli atti in preghiere e in azioni. Troviamo che la preghiera è un’azione e l’azione una preghiera; ci sembra che l’azione veramente amorosa è tutta piena di luce. Ci sembra che di fronte ad essa l’anima è come una notte tutta protesa verso la luce che sta per venire. E quando la luce si fa – il volere di Dio chiaramente compreso – ecco l’anima viverla con dolcezza piena, con pacatezza piena, guardando Dio animarsi e agire in essa. Ci sembra che l’azione sia anche una preghiera d’implorazione. Non ci sembra che l’azione c’inchiodi nel nostro terreno di lavoro, di apostolato o di vita. Al contrario, ci sembra che l’azione perfettamente compiuta là dove ci viene reclamata innesta noi in tutta la Chiesa, ci diffonde in tutto il suo corpo, ci fa disponibili in essa. I nostri passi camminano in una strada, ma il nostro cuore batte nel mondo intero. È per questo che i nostri piccoli atti, nei quali non sappiamo distinguere fra azione e preghiera, uniscono così perfettamente l’amore di Dio e l’amore dei nostri fratelli. Il fatto di abbandonarci alla volontà di Dio ci consegna nello stesso istante alla Chiesa che da questa volontà medesima è resa costantemente salvatrice e madre di grazia. Ciascun atto docile ci fa ricevere pienamente Dio e dare pienamente Dio in una grande libertà di spirito. Allora la vita è una festa. Ogni piccola azione è un avvenimento immenso nel quale ci viene dato il paradiso, nel quale possiamo dare il paradiso. Non importa che cosa dobbiamo fare: tenere in mano una scopa o una penna stilografica. Parlare o tacere, rammendare o fare una conferenza, curare un malato o battere a macchina. Tutto ciò non è che la scorza della realtà splendida, l’incontro dell’anima con Dio rinnovata ad ogni minuto, che ad ogni minuto si accresce in grazia, sempre più bella per il suo Dio. Suonano? Presto, andiamo ad aprire: è Dio che viene ad amarci. Un’informazione? …eccola: è Dio che viene ad amarci. È l’ora di metterci a tavola? Andiamoci: è Dio che viene ad amarci. Lasciamolo fare (M. DELBREL, Nous autres gens de la rue,in Etudes carmélitaines, XXIII, 1938, vol. I, p. 32 ss).

Preghiera

Che ti amo Signore, non ho alcun dubbio; ne sono certo. Con la tua parola hai toccato il mio cuore, e io ho cominciato ad amarti. Ma che cosa amo amandoti?Non una bellezza corporea né una grazia transitoria; non lo splendore di una luce così cara a questi miei occhi; non dolci melodie di svariate cantilene; non un profumo di fiori, di unguenti e di aromi; non manna né miele, non membra invitanti ad amplessi carnali. Amando il mio Dio, non amo queste cose. E tuttavia nell’amare lui amo una certa luce, una voce, un profumo, un cibo ed un amplesso che sono la luce, la voce, il profumo, l’amplesso dell’uomo interiore che è in me, dove splende alla mia anima una luce che nessun fluire di secoli può portar via, dove si espande un profumo che nessuna ventata può disperdere, dove si gusta un sapore che nessuna voracità può sminuire, dove si intreccia un rapporto che nessuna sazietà può spezzare. Tutto questo io amo quando amo il mio Dio.

(S. Agostino)

Fonte:https://caritasveritatis.blog/