XXVII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (02/10/2022)
- La fede (Lc 17,5-6).
- Leggendo i primi due versetti del brano di Vangelo odierno si rimane un po’ spiazzati per il veloce botta e risposta fra gli apostoli e Gesù riguardo ad un tema così importante come quello della fede.
Certo, la richiesta degli apostoli, forse suscitata dalle precedenti affermazioni di Gesù, è di quelle che a volte ci sentiremmo di rivolgere anche noi. Nel campo della fede, almeno in certi momenti, ci sentiamo tutti un po’ carenti. Specialmente se si tratta di vigilare attentamente su noi stessi per non essere di scandalo e subire quanto Gesù afferma in Lc 17,1-2, o se si tratta di continuare a perdonare qualcuno che ci danneggia ripetutamente (Lc 17,3-4). Le nostre forze spesso non sembrano adeguate alle “pretese” dell’insegnamento di Gesù. Se solo avessimo quella bella fede, quella grandiosa fede che possiamo ammirare nei santi … - Può sorprendere il fatto che un elemento così insignificante come il “chicco di senape” sia nominato ben cinque volte nei Vangeli. Nelle altre ricorrenze lo si usa come metafora del regno di Dio il quale, sebbene in partenza molto piccolo, sprigiona però una forza tale da crescere a dismisura (Lc 13,19). Se nella risposta di Gesù riguardo alla fede si vuole intendere qualcosa di analogo, allora possiamo capire che ai discepoli è richiesto pochissimo; ancora una volta è richiesta la cosa giusta,
vale a dire la (vera) fede. Perché quello che conta non è la quantità, ma la genuinità. Se il chicco è genuino, anche se piccolo ha in sé la forza necessaria per crescere. Non è richiesto perciò una forza sovrumana, ma soltanto di credere in quello che Gesù dice. Si tratta di accogliere la parola di Cristo per quello che è, senza porre ostacoli. È infatti la stessa parola di Dio, che viene dalla bocca di Gesù, a sprigionare quella forza necessaria per realizzare cose “sovrumane”. San Paolo rende testimonianza ai Tessalonicesi del fatto che, avendo essi accolto la parola della predicazione non come parola di uomini ma come vera Parola di Dio, essa ha operato in loro, grazie a quella fede (1Ts 2,13).
È la parola stessa di Dio che ha in sé la forza per crescere e portare frutto. Ma essa ha bisogno che le si faccia spazio in un terreno buono – almeno tanto spazio quanto per un granello di senape – di modo che possa prosperare. - Certamente c’è una crescita nella fede (1Ts 3,10; 2Ts 1,3). Non possiamo dare mai per scontato che la nostra fede è sufficientemente adulta e matura. Ma è anche vero che c’è una fede di cui è sufficiente soltanto un punto su cui tutto si regge. È il punto d’appoggio per cui si può sollevare il mondo. È il punto che sostiene tutto l’edificio, su cui la casa si mantiene salda, senza vacillare. È il punto di forza grazie al quale facciamo opere superiori alle nostre forze, per cui è possibile anche l’impossibile. È il punto di stabilità di tutta l’esistenza (“credere”, nel linguaggio biblico, significa “essere stabili”: cfr. Is 7,4.9; 28,16). Al contrario, se manca questo punto, qualsiasi problema, inconveniente, tentazione, crisi, non solo fa crollare ogni proposito di seguire Cristo, ma anche produce un’ansia, una agitazione, una paura ad affrontare la vita (Is 7,2; Lv 26,36; Dt 28,65).
- La ricompensa del servo (Lc 17,7-10).
- “Soltanto servi”. In questa seconda parte del vangelo odierno mi pare che il punto chiave sia l’espressione “servi miseri” (v. 10). Il termine achreioi significa infatti non “inutili” bensì “senza diritto di ricompensa”. Questo è chiaro anche da quanto Gesù dice nel v. 9: «Darà forse (il padrone) una ricompensa (= “gratitudine”) a quel servo per aver fatto ciò che gli è stato comandato?». Vale a dire: quel servo non ha diritto di ricevere una ricompensa speciale per aver fatto il suo lavoro. Non ha fatto nient’altro che quanto gli spettava. Così è nella Chiesa. Nella Chiesa siamo tutti inadeguati.
Nessuno può vantare di essere adatto a qualcosa, di essere uno “specialista”. Il servizio è un dono di Dio. Il servizio nella Chiesa non può essere un vanto, ma è una “necessità” (1Cor 9,16) che scaturisce dalla grazia che ci è stata data; il servizio stesso è perciò una ricompensa (1Cor 9,18). Per quanto si sia al servizio di Dio si rimane sempre “servi senza alcun diritto”. - “Quanto dovevamo fare” (v. 10): Noi siamo “debitori” nei confronti del Signore. Niente ci è dovuto, perché noi non siamo i padroni, ma solo servi, o amministratori di beni non nostri. L’atteggiamento della persona religiosa è quello di pensare di aver diritto a ricevere una ricompensa (charis, v. 9; cfr. Lc 6,32.33.34) per quello che fa per Dio, perché ritiene che lui sta facendo qualcosa per Dio (cfr. l’atteggiamento del figlio maggiore in Lc 15,29). La stessa pretesa si verifica in chi vive il cristianesimo in una forma magica. Non sono le buone opere che ci ottengono la giustificazione (contro la pretesa farisaica), nemmeno quelle dei padri (parabola della domenica precedente). La “grazia” non è data in forza delle opere. La ricompensa che riceveremo è sempre frutto della grazia di Dio, non delle nostre opere. Piuttosto le opere sono un segno che si è già ricevuto una grazia (1Cor 15,10).
- Il servizio a Dio non è part-time, come un qualsiasi impiego che occupa un certo spazio della
giornata e lascia altro spazio per essere gestito in proprio. Il servizio a Dio è full-time, perché il cristiano offre un culto vivente a Dio con tutta la sua esistenza (Rm 12,1). La persona religiosa pensa che, dopo aver accontentato Dio con qualcosa del suo tempo, ha diritto di gestire la sua vita come gli pare. Il cristiano invece non ha nulla della sua vita in proprio, perché ha capito che tutto gli è stato dato in dono da Dio perché lo amministri secondo la sua volontà. Soltanto dopo aver fatto “tutto quello che doveva fare” godrà del banchetto celeste dove Cristo stesso passerà a servirlo (Lc 12,37). - La metafora potrebbe voler rispondere ad una implicita domanda sul perché spesso non risulta che chi serve Dio abbia una ricompensa. I servi di Dio, i figli del regno, i cristiani, soffrono come gli altri. Per questo il testo gioca sul contrasto tra il “subito” e il “dopo”. Siamo molto vicini alla parabola precedente del ricco e di Lazzaro (cfr. 16,25). È soltanto dopo aver fatto in tutto la volontà di Dio su questa terra che potremo “mangiare e bere” (v. 8) nel regno di Dio (Lc 22,30; cfr. contrasto con Lc 12,45). Il “subito” del v. 7 sta in opposizione al “dopo” del v. 8 (il “dopo” serve ad indicare il periodo successivo alla vita terrena come in Lc 12,4-5). Non è ora in questa vita che possiamo sederci al banchetto messianico; questo si realizzerà “dopo queste cose”, cioè dopo che avremo svolto tutto l’incarico che ci è stato affidato, e dopo il ritorno del padrone (Lc 12,37). Per questo, dire “sono un servo inutile” soltanto per evitare di fare un servizio è una pura ipocrisia o segno di un dannoso complesso di inferiorità. Cristo ci invita a non attenderci una ricompensa qui su questa terra, come invece i farisei che fanno le loro opere buone per essere ammirati dagli uomini. Per un cristiano è già sufficiente su questa terra essere servo di Cristo. Non possiamo usare il cristianesimo per stare bene qui. La vita su questa terra va vissuta nella volontà di Dio, sapendo che questo è già un dono di Dio, e che non c’è modo migliore di vivere che servire Cristo.
Fonte:http://www.donmarcoceccarelli.it/