Liturgia: Sir 3, 3-7.14-17; Sal 127; Col 3,12-21; Mt 2,13-15.19-23

Storia della famiglia di Nazaret. La Bibbia non dà spazio a teorie ma racconta
storie di famiglie e anche molto diverse. Quella di Nazaret certamente ha una
sua particolare identità. E allora lasciamo parlare la storia così com’è. Nasce
un invito ad essere attenti, sempre e comunque, a questa biografia perché
non è identica alle nostre.

Oggi il vangelo di Matteo racconta i giorni dell’Egitto della famiglia di Nazaret. C’è stata una notte con
una fuga, su mandato di un angelo. A rischio c’era la vita del bambino. Poi c’è un ritorno. La narrazione è
sobria. Per alleggerire la drammaticità dell’esilio in terra straniera, i vangeli apocrifi danno ampio spazio
ai miracoli che accompagnarono il viaggio. Il vangelo non ne racconta uno. 
Rimaniamo alla storia, al viaggio. Con tutto quello che di preoccupazione e fatica porta con sé
un’avventura simile. Di una drammatica fuga si tratta. Ebbene il viaggio-fuga di Giuseppe e Maria con il
loro bambino di che cosa è segno, che cosa può suggerire a noi? Parla di sradicamenti. È una famiglia
che vive sulla sua pelle il dramma che milioni e milioni di famiglie vivono anche oggi: un viaggio verso
l’ignoto.
Verso un’altra terra perché c’è un agguato di morte. E Dio manda un angelo nel sonno a comandare la
fuga. Famiglie in fuga, perché l’alternativa nella propria terra è la morte. Morte di guerra o di fame o di
libertà, ma sempre morte. E Dio non è per la morte. 
E io a chiedermi se nei sogni di tanta gente non ci sia il passaggio dell’angelo. E noi, se abbiamo occhi per
la famiglia migrante di Nazaret, come non possiamo averne per le famiglie migranti di oggi? Ogni volta
che leggo questo brano di fuga e ritorno dall’Egitto, mi viene spontaneo pensare che Dio chiede anche a
me e a noi di prenderci cura di chi fugge.
Allora era responsabilità di Giuseppe. Ma oggi il resto è affidato a noi. La via di fuga la studia Giuseppe.
Ciò che deve portare lo prepara con Maria. Lo spaesamento lo provano in due, in due a cercare casa e
lavoro. Sono le cose che cercano i migranti di oggi!
E la fuga continua perché c’è l’indicazione della terra in cui ritornare. Giuseppe è tutt’altro che l’uomo
passivo. Viene a sapere di Archelao, allora decide di mettere casa in un’altra regione, va a Nazaret. Mi
sembra di incontrare nel racconto un elogio a Giuseppe, alla sua intelligenza e alla sua intraprendenza.
Questo è prendersi cura.
Ma che cosa significa prendersi cura? Di questo ci dobbiamo preoccupare, pensare, capire, confrontarsi
e trovare soluzioni. Giuseppe è un laico, non è un prete. E’ chiamato in causa lui, con la sua intelligenza,
la sua visione della realtà, il suo coraggio di rischiare. Lui, padre, va a cercare una patria.
La patria non è un museo, ce lo ha ricordato Papa Francesco, ma è un’opera collettiva in permanente
costruzione in cui sono da mettere in comune proprio le cose che ci differenziano, incluse le
appartenenze politiche o religiose. E la patria si costruisce quando le diverse ricchezze culturali possono
dialogare in modo costruttivo.
Ricordiamoci che il modo migliore per dialogare non è quello di parlare e discutere, ma quello di fare
qualcosa insieme, di costruire insieme, di fare progetti, insieme a tutti coloro che hanno buona
volontà”. 

Il Sinodo è uno stile di vita. il nostro modo di essere fedeli al vangelo”. E ce lo auguriamo, in questa
celebrazione, come credenti.