Don Marco Ceccarelli Commento V Domenica di Pasqua (Anno B)

V Domenica di Pasqua (Anno B)  (28/04/2024) Liturgia:Atti 6,1-7; 1Pietro 2,4-9; Giovanni 14,1-12

Testi di riferimento: Is 5,1ss.; 27,2-3; 60,21; Ger 2,21; 5,10; 6,9; 12,10; Ez 15,2-6; 17,5-10; Os
10,1; 14,9; Sal 80,9-17; 92,15-16; Mt 3,8-10; 7,19-20; 15,10.13; 21,33ss.; Lc 13,6-9; Gv 6,56; 8,31;
12,24; 13,10; 14,10.19-20; 15,16; Rm 6,5; 8,10-11; 12,5; Gal 2,20; 5,22-23; Ef 3,17; 5,26.30-32; Fil
1,11; 4,13; Col 1,6.10; Gc 3,12; 1Pt 1,22; 2,12; 4,11; 2Pt 1,8; 1Gv 2,5-6

  1. La prima lettura. Nel tempo di pasqua le prime letture sono tratte dagli Atti degli Apostoli. Sono
    brani brevi, presi qui e là, per mostrare alcune fasi della primitiva predicazione apostolica e della
    nascita delle prime comunità cristiane. Nel brano odierno abbiamo un episodio relativo a Saulo, poco dopo la sua conversione. La sua conversione ha costituito un evento fondamentale per la Chiesa
    nascente; e il brano odierno ci mostra due caratteristiche importanti della vita di Saulo dal momento
    della sua conversione. Da un lato, fin dall’inizio egli va incontro a tribolazioni a causa di quel Gesù
    che gli è apparso e gli ha parlato sulla via di Damasco, come aveva annunciato il Signore stesso: «Io
    gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome» (At 9,16). I circa trent’anni dell’apostolato di
    Saulo saranno segnati fortemente dalle sofferenze a causa del Vangelo, come egli stesso riassume in
    2Cor 11,23-29. Essere testimoni di Cristo, portare l’annuncio di salvezza implica – paradossalmente
    – una costante opposizione; implica assomigliare allo stesso Cristo rifiutato. D’altro lato, nonostante
    questo, Saulo parla a tutti apertamente, senza paura. Il termine parresia, che appare due volte nel
    brano odierno, indica appunto il coraggio, la schiettezza, la franchezza con cui si presentano le cose.
    E ciò Saulo farà fino al termine della sua vita, dando testimonianza ai piccoli e ai grandi, senza paura, della verità, anche se ciò gli procurerà continue tribolazioni (At 20,23; 2Cor 6,4-5).
  2. Il Vangelo.
  • La metafora della vigna.
  • Nell’Antico Testamento la metafora della vigna (usata nel brano odierno di Vangelo) è applicata
    ad Israele. Israele è la vigna che Dio ha piantato e coltivato. Lui è l’agricoltore di questa vigna che è
    il suo popolo. Dio se ne è preso cura quando ha liberati dall’Egitto una massa di schiavi, come erano gli Israeliti, e li ha portati nella terra promessa (dove appunto li ha piantati come una vigna: Sal
    80,9-12); e soprattutto ha costituito con essi quella peculiare unione che designiamo con il termine
    “alleanza”. E come ogni agricoltore anche Dio si aspetta che Israele dia i frutti per cui è stato piantato e coltivato. Però questa vigna si rivelerà infruttuosa (Is 5,2-7; Ger 2,21). Israele non produce i
    frutti che il Signore si aspetta, vale a dire l’obbedienza a Lui come unico Dio, e la manifestazione
    della Sua gloria fra le nazioni. La causa di questo fallimento non sta dalla parte dell’agricoltore,
    perché Dio ha fatto tutto ciò che doveva fare affinché la vigna portasse frutto. L’illusione di Israele
    è stata quella di poter realizzare i suoi scopi in autonomia dal Signore, seguendo le proprie vie.
  • La migliore descrizione di questa realtà l’abbiamo in Ez 15,1-6. Qui il Signore afferma che il legno della vite non ha nulla di pregiato, non è superiore in nulla rispetto agli altri legni. Infatti tale
    legno in sé, il tralcio separato dalla pianta, non serve a nulla. Il legno della vite non si può adoperare
    per fare un mobile o per qualsiasi altro scopo. E se si butta nel fuoco non è per usarlo come legna da
    ardere, perché neppure per questo è utile, ma soltanto per eliminarlo. Allora, si dice, questa è la
    realtà rappresenta Israele. Israele in sé non può far nulla di buono. Illudersi di potere essere qualcosa senza quel Dio che lo ha formato, che lo ha piantato e coltivato, che se ne è preso cura come un
    Padre, è totalmente insensato. L’esito di questo atteggiamento può essere soltanto la distruzione.
  • La vite che è Cristo.
  • L’illuminante esempio di Ez 15 ci permette di comprendere quanto dice Gesù nel Vangelo odierno. Innanzitutto va notato che Gesù afferma chiaramente di essere lui stesso la vigna. Se nell’Antico
    Testamento la vigna era Israele, ora è Cristo. Lui è quindi il nuovo Israele, la vigna che finalmente porta frutto, secondo le aspettative dell’agricoltore. E Cristo ha voluto unire a sé, ha voluto fare partecipare di questa vigna che è lui anche i suoi discepoli. Cristo è la “vera vite” e i cristiani ne sono i
    tralci (v. 1). Cristo, con il suo corpo che è la Chiesa, è la nuova vite che il Padre, il vignaiolo, ha
    piantato sulla terra perché porti frutto. Non ci possono essere i tralci senza la vite; non ci può essere
    la Chiesa senza Cristo.
  • In secondo luogo, appare chiaro che per i cristiani non c’è senso alla loro chiamata, non ci può essere per essi frutto, se non rimangono uniti alla vite che è Cristo. Il verbo chiave del brano evangelico odierno è menein, “rimanere” – sette volte nei versetti 4-7, più altre tre volte in 9-10 – che indica
    l’unione del discepolo con Cristo (cfr. Gv 1,38-39). L’unione con Cristo è il perno di tutto, il fondamento anche di qualsiasi attività ecclesiale; perché chi rimane in Cristo cammina (= si comporta)
    come Cristo (1Gv 2,6). L’illusione di un’autonomia dalla vite è assolutamente insensata. Non ci può
    essere alcun frutto senza l’unione con Cristo. Senza di lui non possiamo fare nulla (v. 5), nel senso
    che non possiamo fare nulla di buono, di veramente fruttuoso. Tutte le attività, anche quelle apparentemente più grandiose, lodevoli, umanitarie, sociali, religiose, senza di Cristo sono destinate a
    scomparire, o a produrre effetti che non sono quelli voluti da Lui. Soltanto l’unione con Cristo permette di lasciare un frutto vero e duraturo. Il segno che “rimaniamo in Cristo” è lo “Spirito che ci ha
    dato” (seconda lettura). Ciò che muove il cristiano è lo stesso Spirito che muove Cristo, ed è mosso
    per la stessa finalità.
  • Il frutto dei tralci è lo stesso frutto della vite. I cristiani, quelli che sono uniti a Cristo, fanno lo
    stesso suo frutto. E il frutto di Cristo è stato la vita. Egli è stato quel seme che caduto in terra è morto per portare molto frutto (Gv 12,24), e con l’offerta della sua vita egli ha generato e continua a
    generare vita negli uomini. Lo stesso frutto sono chiamati a portare i suoi discepoli, perché a tal
    scopo Gesù li ha costituiti (Gv 15,16) e perché in questo è glorificato il Padre (Gv 15,8). I discepoli
    porteranno frutto donando agli uomini la vita di Gesù risorto, che vive in loro.
  • Questo ci porta a comprendere l’enorme valore che acquista la vita del cristiano. Le sue azioni sono azioni di Cristo. E questo è vero in forma straordinaria per quella realtà attraverso la quale Cristo
    ha salvato gli uomini, cioè la sofferenza. Le sofferenze di un cristiano – di uno cioè che è veramente
    unito a Cristo come il tralcio alla vite – sono le stesse sofferenze di Cristo. E come le sue, anche
    quelle del cristiano hanno un valore relativo alla salvezza degli uomini. Per questo Paolo può dire:
    «Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la
    Chiesa» (Col 1,24). Così la vita di un cristiano non ha altra finalità che quella di Cristo. L’essere discepolo di Gesù non può essere un fatto marginale, una esperienza accanto a tante altre che uno ha
    nella vita. Un tralcio non ha senso fuori dalla sua unione con la vite. L’unione con Cristo e il portare
    frutto costituisce il senso ultimo, primario, supremo, dell’esistenza di un cristiano. Tutte le altre
    realtà avranno valore e riceveranno la loro giusta dimensione nella misura in cui sono relative a
    questa vocazione fondamentale.
  • La potatura.
  • Al v. 2 si presenta una contrapposizione elementare, ma molto efficace. Come ogni buon agricoltore, Dio opera dei tagli sulla sua vigna. Però c’è una distinzione. Da un lato si tolgono i tralci che
    non portano frutto. Ciò vuol dire che anche se un tralcio è attaccato alla vigna non necessariamente
    fa frutto. Potrebbe essere un “attaccamento” solo apparente. Si può stare apparentemente nella
    Chiesa, vicini al Signore, ma non attingere la linfa vitale da lui. Invece per i tralci che portano frutto
    c’è una potatura. Anche la potatura, per uno che non se ne intende, potrebbe sembrare uno scempio,
    un atto distruttivo contro il tralcio; invece è un atto assolutamente positivo. Serve appunto a far sì
    che la vite produca più frutto. Il termine “potare” – katairo – indica una “purificazione”, un togliere
    via per rendere puro, pulito qualcosa. La potatura indica perciò una “disinfestazione” da quelle realtà in eccesso che ostacolano o impediscono la realizzazione del fine. La potatura non è una recisione dell’intero tralcio, ma solo di ciò che è in eccesso. Un cristiano chiamato a portare frutto può venire intralciato nel suo fine dalla presenza nella sua vita di realtà superflue. Il buon vignaiolo sa cosa deve eliminare nel tralcio perché esso porti più frutto. Così fa il Padre, come farebbe un pedagogo con i suoi allievi, allontanando ciò che disturba la loro crescita verso una sana maturità.
  • I discepoli sono già kataroi, cioè potati, “ripuliti”, grazie alla parola di Cristo (v. 3). La parola di
    Cristo, se la accogliessimo veramente, se la ascoltassimo – innanzitutto! – avrebbe un effetto assolutamente purificatore. La parola di Cristo ha veramente il potere di operare nella vita di chi la accoglie, come è stato per Saulo. E senza dubbio Cristo parla a noi anche attraverso gli eventi della
    nostra vita, attraverso quei fatti che servono a “potarci”, a purificarci da ciò che è superfluo. Occorre accettare le potature di Dio, lasciarci ammaestrare da Lui, se vogliamo veramente che il frutto di
    Cristo si realizzi nella nostra vita. L’eventuale ribellione a tali potature indicherebbe che il nostro
    interesse non è lo stesso di Cristo.

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