Don Marco Ceccarelli CommentoXI Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) 

XI Domenica del Tempo Ordinario (Anno B)  (16/06/2024)Liturgia: Ez 17, 22-24; Sal 91; 2Cor 5, 6-10; Mc 4, 26-34

  • Testi di riferimento: 1Sam 2,4-7; Gb 5,11.26; Sal 34,11; 75,8; 92,13; 104,12; 107,41; 113,7-8;
    147,6; Pr 11,18; Qo 11,4-6; Sir 10,14; Is 2,2-3; 27,6; 28,24-26; 61,11; Ger 51,33; Ez 21,26-27.31;
    31,6.10-12; Os 14,4-7; Gl 4,13; Am 9,11; Dn 4,7-12.17-21; Mt 13,39-42; 17,20; Lc 1,51-53;
    6,21.24; Gv 4,37-38; 12,24; 1Cor 1,25-27; 3,6-9; Gal 6,7; Fil 1,6; Col 1,10; 2Ts 1,3; Gc 3,18; 5,7-
    11; Ap 6,10-11; 11,15; 14,15-20
  1. Prima lettura. Il profeta, dopo aver annunciato la catastrofe ai Giudei ribelli di Gerusalemme
    (cfr. Ez 17,12) che pretendevano di mettersi contro il re di Babilonia (sebbene fosse stato Dio a
    permettere che li opprimesse), presenta in questo testo un oracolo di salvezza, usando la metafora
    dell’albero per annunciare agli esiliati che Dio costituirà nel paese di Israele un regno potente che
    garantirà protezione ai suoi sudditi. Dopo che ormai tutto appare irrimediabilmente perduto e finito,
    gli Israeliti in esilio possono invece ancora sperare che Dio “ribalterà la loro sorte” (Sal 126,1).
    L’idea principale del poema sta infatti nell’imprevedibilità di questo evento. Se da un lato il regno
    babilonese sembra così potente e invincibile, mentre il regno di Giuda appare ormai annullato, agli
    esiliati viene annunciato che Dio è capace di “umiliare l’albero alto e innalzare l’albero basso” (v.
    24), o come si dirà più tardi di “rovesciare i potenti dai troni e innalzare gli umili” (Lc 1,52). Anche
    se Israele è diventato un “ramoscello”, il Signore lo farà diventare un grande cedro sotto i cui rami
    ci si potrà rifugiare e trovare riposo. Tuttavia, nonostante l’annuncio si concluda con l’affermazione
    solenne «Io il Signore ho parlato e lo farò», sei secoli dopo, al tempo di Gesù, qualcuno poteva sentirsi autorizzato di dubitare del compimento di questo oracolo.
  2. Il Vangelo.
  • Con il brano di Vangelo odierno ci troviamo con due parabole relative al regno di Dio; quel regno
    di Dio che, come sappiamo fin dall’inizio di Mc, costituisce l’oggetto fondamentale, e praticamente
    unico, della predicazione di Gesù: la sua Buona Notizia (1,14-15). Tutto l’insegnamento di Gesù,
    soprattutto quello in parabole, mira a far comprendere questa nuova realtà che si è fatta presente. E
    tuttavia in Mc soltanto le due parabole del brano odierno sono esplicitamente indicate in relazione
    al regno di Dio (vv. 26.30).
  • Due parabole del “contrasto”. Quello che conta in queste due parabole non è lo sviluppo, ma il risultato finale che contrasta nettamente con quello iniziale. Così, nella prima parabola, ciò che è importante non è la descrizione degli stadi intermedi, ma il contrasto fra l’inizio e la fine. L’enumerazione degli stadi della maturazione serve da artificio letterario per accrescere la tensione. Ma serve
    anche per accentuare la contrapposizione fra la lentezza con cui si arriva al risultato e la rapidità
    (“subito”) con cui si mette mano alla falce per la mietitura. Ricordiamoci che le parabole non sono
    (solitamente) delle allegorie. Per questo è anche inutile osservare che non si dice nulla riguardo al
    normale lavoro umano di aratura, bonifica del terreno, fertilizzazione, irrigazione, ecc. Quello che
    conta è capire quale sia il “punto”, l’insegnamento che si vuole esprimere con la parabola. In questo
    caso si tratta del grande risultato finale rispetto alla piccolezza iniziale. Ciò pone fortemente l’accento sull’aspetto escatologico: il regno si compie, ha la sua realizzazione definitiva alla fine dei
    tempi. Questo non esclude che avvenga un’espansione prima dell’eschaton; espansione che manifesta una straordinaria potenza rispetto alla sua apparente debolezza. Ma è chiaro che prima del tempo
    della fine – la mietitura – il regno di Dio non esprime in pienezza tutta la potenzialità di cui è dotato. In altri termini: il regno convive con la zizzania (Mt 13,30); il regno subisce violenza (Mt
    11,12); i figli del regno sono perseguitati (Mc 13,9-13); l’ingiustizia sembra spesso prevalere. Spesso non sembra che ad essere e a vivere come figli del regno ci siano dei frutti; sembra invece non
    portare né alcun vantaggio, né alcun frutto. Ma i figli del regno devono sapere che la pazienza premierà, che alla fine ci sarà la ricompensa per l’attesa, per l’essere rimasti fedeli al regno (Gc 5,7-
    11). Alla fine arriva il giudizio, di cui la mietitura è una metafora (vedi testi di riferimento). Avverrà
    “automaticamente” (v. 28), nessuno potrà impedirlo. Per questo un’altra immagine a volte usata per
    esprimere la stessa idea è quella della gestante che deve partorire: niente può impedire al nascituro
    di venire alla luce (Is 54,1; 66,7-8; Ap 12,1-5).
  • “Come egli stesso non lo sa” (v. 27). Occorre sottolineare, perché forse non è così ovvio, che il
    ruolo del contadino nella parabola non è irrilevante. Anzi, egli è un soggetto importante tanto quanto il seme. È importante perché la sua figura ci sta dicendo che riguardo allo sviluppo del regno di
    Dio nel mondo non serve “sapere come” esso avvenga. Non è necessario capire le dinamiche con
    cui il regno fa breccia in mezzo agli uomini, magari anche in mezzo a tanta ostilità. Nemmeno per
    noi oggi è facile capire come, per esempio, l’impero romano sia diventato cristiano dopo secoli di
    persecuzioni. Allora l’insegnamento è chiaro: occorre seminare, occorre annunciare la buona notizia
    del regno di Dio, così come fa Cristo, senza preoccuparsi di comprendere per quali vie, attraverso
    quali misteriosi mezzi esso giungerà al tempo della mietitura. Perché ognuno raccoglierà quello che
    avrà seminato (Gal 6,7). Il raccolto è possibile soltanto se c’è stata la seminagione. Nemmeno la
    continua “ignoranza” dei discepoli riguardo il messaggio del regno (Mc 4,13) impedirà ad esso di
    affermarsi.
  • La (apparente) debolezza del regno e la potenza di Dio. La debolezza del regno di Dio che Gesù
    annuncia deve aver costituito uno dei principali motivi che causavano quelle situazioni di incomprensione in cui gli apostoli stessi si venivano a trovare, come molto spesso Mc mette in rilievo. Se
    Gesù è il Cristo, il figlio di Davide, il Messia del nuovo regno, non è possibile che mantenga un atteggiamento così dimesso e addirittura si metta a parlare di una sua eventuale uccisione (8,29-32).
    Gesù non chiamava alla rivolta contro i romani, non manifestava con chiarezza la sua messianicità.
    E soprattutto, alla fine, non ha opposto nessuna resistenza davanti alla propria uccisione. Tutto ciò
    era incomprensibile. Lo scandalo della croce, lo scandalo della debolezza del regno dovrà essere
    superato dall’esperienza della potenza di Dio manifestata nella vittoria sulla morte di Gesù. Come
    dirà Gesù ai sadducei in riferimento alla risurrezione dei morti: «Voi non conoscete la potenza di
    Dio» (Mc 12,24). Perciò se nei processi della natura si possono constatare risultati così diametralmente opposti alla fase iniziale, tanto più – sembra dire Gesù – Dio sarà in grado di far maturare fino alla pienezza quel suo regno che si presenta in una forma così piccola e debole. Quel piccolo
    gregge costituito da un misero gruppo di discepoli diventerà il grande universale popolo di Dio che
    abbraccerà tutte le genti.
  • La pazienza. La fiducia nella potenza di Dio implica l’atteggiamento paziente di chi sa aspettare
    (Gc 5,7-11). Ma soprattutto di chi sa già vedere la presenza del regno anche nella sua piccolezza e
    debolezza. Occorre riconoscere che il regno è già presente all’interno del piccolo seme. Nel principio è già compresa la fine. La (presunta) inattività dell’agricoltore nella prima parabola serve a sottolineare questo atteggiamento di fiducia. Anche se “non sappiamo come” (v. 27), anche se a volte
    non è prevedibile alcuna possibile soluzione, nessun possibile intervento di aiuto alla condizione di
    debolezza, il regno di Dio raggiungerà il suo scopo “automaticamente” (v. 28), “da se stesso”, perché ha in se stesso la forza necessaria per raggiungere tale scopo. Il regno di Dio è Cristo stesso,
    quel Cristo che ha la vita in se stesso. Cristo continua a portare frutto rimanendo in mezzo agli uomini; e niente è in grado di impedire che egli vi rimanga, perché egli ha vinto la morte. E ciò non
    implica una passività dei figli del regno. Come sottolinea san Paolo nella seconda lettura odierna,
    proprio perché sappiamo che il regno di Dio arriverà al suo compimento, che ci sarà una mietitura e
    “tutti dovremo comparire davanti al tribunale di Cristo”, noi continuiamo a “camminare nella fede,
    pieni di fiducia, sforzandosi di essere graditi al Signore”. La pazienza del cristiano si manifesta nel
    rimanere fedele al Signore, alle “leggi” del debole regno di Dio, anche quando deve subire la potenza e la prepotenza dei regni umani (Ap 6,11). Permettiamo a Cristo – lui che il regno in persona – di
    rimanere, vivere e agire in noi, e certamente porterà frutto, vale a dire la salvezza per noi, per la nostra famiglia, per la nostra società, per il mondo.

Fonte:http://www.donmarcoceccarelli.it/


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