Don Massimo Grilli Commento alla Parola nella XI Domenica del Tempo Ordinario /B

XI Domenica del Tempo Ordinario (Anno B)  (16/06/2024)Liturgia: Ez 17, 22-24; Sal 91; 2Cor 5, 6-10; Mc 4, 26-34

Il tema della Domenica

Ci sono momenti in cui le speranze individuali e collettive sono ridotte al lumicino, situazioni in cui la storia del mondo e le vicende personali sembrano procedere solo in modo lento e frammentario. Mancano le forze e si ha poco tra le mani: poco pane, poca luce, poco coraggio…. Vorremmo di più e più in fretta. La Parola invita oggi a guardare questa carenza da un altro punto di vista. Gli oracoli del profeta Ezechiele e le parabole di Marco costituiscono un invito a rileggere la storia dalla parte della piccolezza e dell’insignificanza; a cercare il seme di speranza là dove la realtà ha piuttosto le sembianze di una terra desolata. Nell’addizionarsi dei giorni e degli anni si confrontano la fretta dell’uomo e i tempi di Dio, il tutto che vogliamo e il poco che basta.

Prima lettura: Ez 17,22-24

Il testo di Ezechiele descrive un futuro radioso visto da un presente contrassegnato, invece, da un senso di frustrazione e impotenza. Siamo probabilmente al tempo dell’esilio, quando le promesse divine riguardanti la terra e la discendenza sembravano frantumate. Il testo somiglia molto a un altro di Is 11, quando, sul tronco secco della casa di Davide, il profeta vede spuntare “un germoglio”, un discendente, su cui si concentreranno nuovamente le speranze di Israele. I tempi di Isaia e di Ezechiele sono diversi e sono diverse soprattutto le situazioni politiche e sociali, ma rimane sempre la stessa deludente costatazione di una realtà frantumata, senza speranza. Una realtà che, per certi versi, è analoga a quella che oggi vive la Chiesa nel nostro Occidente. Nonostante le resistenze ad ammetterlo, i numeri diminuiscono, le proposte si affievoliscono, il terreno subisce continui smottamenti e il presente appare sempre più modesto. Eppure i profeti – che non si erano mai tirati indietro, quando si trattava di andare contro l’ottimismo miope dei più – anche ora, in una situazione disperata come quella dell’esilio babilonese, vanno contro corrente. Dio stesso coglierà un ramoscello e lo pianterà sul monte santo, vicino al tempio, ed esso crescerà e diventerà un cedro magnifico e gli uccelli si poseranno sopra. La metafora è evidente, ma bisogna fare attenzione a non fraintendere: non si tratta principalmente di un paragone tra la piccolezza degli inizi e gli sviluppi grandiosi futuri. Non si tratta del successo come prospettiva e come promessa. Si tratta invece della forza dirompente che, grazie alla fede, abita dentro i mezzi modesti del presente. È un invito a leggere la storia dal punto di vista di Dio, a saper guardare la piccolezza e l’umana insignificanza come una possibilità che la fede è capace di far sbocciare.  La fede ci aiuta a scorgere dei semi di speranza dentro la crisi: un ramoscello è ben poca cosa, ma se viene piantato sulla promessa divina, è un seme di speranza.  Dio crea una nuova attesa e tutto inizia ancora, perché le speranze umane possono venir meno, ma la Sua Promessa rimane. Ecco, dunque, il primo punto da tenere fermo in una crisi di speranza: l’occhio fisso alla Promessa di Dio, che ha il potere di “far germogliare l’albero secco”. Il germoglio nasce sul tronco secco del casato di Davide, grazie alla Sua fedeltà.

Il Vangelo: Mc 4,26-34

La suggestiva parabola marciana, del piccolo seme, che germina e cresce all’insaputa dell’agricoltore che lo ha seminato, va nella stessa direzione del brano di Ezechiele.  È una stupenda metafora della potenza del Regno, il cui sviluppo non obbedisce alla nostra logica, ma a quella di Dio. Nonostante la piccolezza e la povertà dei mezzi, il Regno ha una forza dirompente: dopo la seminagione, l’agricoltore prosegue la sua vita di veglia e di sonno, e intanto il piccolo seme gettato in terra cresce: “prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno…”. È interessante notare come il testo si soffermi sui diversi stadi della crescita, quasi a sottolineare la lentezza. Ma quello che a noi sembra lento, ha una forza meravigliosa e, a nostra insaputa, arriva il tempo della mietitura. Parabola suggestiva, dicevo, perché sottolinea almeno due aspetti.

Anzitutto insegna che la speranza nasce dove l’uomo e la comunità sono capaci di riappropriarsi della semplicità e della piccolezza. La grandezza delle cose di Dio, messa in rapporto alle dimensioni politiche, sociali… sembra insignificante: come un granello di senapa, come un ramoscello. Il cristianesimo – ma anche l’esperienza multiforme delle comunità ecclesiali – ha perso questa dimensione della piccolezza, affascinato sempre di più dai grandi progetti e dalle strutture. Le istituzioni sono necessarie, ma se la struttura assume sempre più importanza a discapito della fede e se ciò che importa è il numero, la visibilità, le case…, allora è facile prevedere che non saremo più lievito, ma involucri e ci trascineremo dietro strutture pesanti e soffocanti, senza più gioia e vita. Solo affanno. Tireremo a campare cercando di far quadrare i conti. Questo dice che la vittoria del cristiano sta non nella potenza dei mezzi e nel numero, ma nell’oblazione e che la salvezza dell’uomo è fondata non sul piedistallo delle diplomazie o della sapienza mondana, ma sui poveri, sui miti, sugli uomini di pace… sulle pietre scartate. Non dobbiamo mai dimenticare che il fondamento su cui poggia la chiesa è “la pietra scartata dai costruttori”. La distanza tra il lettore modello dipinto dall’evangelo e noi, lettori di oggi, consiste proprio in questo: come per i dodici apostoli del tempo di Gesù, anche per noi, la verità di Dio e dell’uomo non cammina sulle strade del successo, del possesso e dell’“egotismo” pago di sé, sulle strade di un Dio che vince schiodando i crocifissi e di miracoli che obbligano l’uomo a inginocchiarsi. Per il Vangelo la vittoria e la risurrezione passano per il granello di senapa e il chicco di grano che muoiono perché il mondo viva. Niente di più, niente di meno.

Il secondo punto della parabola – strettamente unito al primo – è che la fede autentica non si nutre dei propri meriti e delle opere delle proprie mani. L’uomo è chiamato a fare responsabilmente quanto gli è chiesto, ma una volta che il seme è gettato, il futuro è nelle mani di Dio e non nelle nostre. È interessante notare come si sia perso questo aspetto, che è un punto centrale della fede e si sia fatto affidamento unicamente sulla capacità costruttiva umana e sulle raccomandazioni dei potenti: insomma, sull’idolatria. La tentazione ricorrente nella Bibbia non è l’ateismo, ma l’idolatria, ossia dimenticare che solo Dio è Dio. Credere significa dar credito a un Dio che si manifesta al di là delle attese fondate su una logica efficientista. Ed è proprio qui che il discorso sulla speranza diventa più impegnativo. La speranza cristiana non racchiude la realizzazione del Progetto divino nei propri angusti orizzonti, ma spinge lo sguardo “al di là”, in una prospettiva che sempre ci sorpassa e ci sorprende. La speranza è la capacità di capire che certi passaggi critici della vita hanno il potere di condurjci verso altri lidi, verso altre mete, per lo più nascoste alla nostra immaginazione, ma non alla Sapienza di Dio.

Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano

Fonte:https://diocesitivoliepalestrina.it/


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