Don Paolo Zamengo “Davanti a Dio figli o personaggi?”

XXX Domenica del Tempo Ordinario (Anno C)  (23/10/2022)

Vangelo: Sir 35,15-17.20-22; Sal 33; 2Tm 4,6-8.16-18; Lc 18,9-14

Il desiderio di essere dei personaggi è molto diffuso. Molti
preferiscono essere influencer con tanti followers, oppure andare in
televisione ed essere protagonisti di un programma che permette a
gente comune, senza doti particolari, di farsi vedere e diventare famosi
per qualche ora.

Ma c’è chi vuole essere importante anche davanti a Dio ed esalta la propria appartenenza, l’impegno, lo zelo, le opere buone. È il caso del fariseo della parabola, tra le più famose perché tocca un nervo scoperto del nostro orgoglio che proprio in questo racconto viene messo a nudo. E sentiamo che quel fariseo vive in ciascuno di noi, mentre a parole siamo pronti a dichiarare che è il pubblicano il personaggio che ci assomiglia.
Questi due uomini disegnano la differenza tra chi veramente siamo e chi vogliamo apparire. È molto difficile vivere la verità della propria vita. C’è un Narciso che vigila sulla soglia della nostra coscienza a difendere i meriti. Questo è il paradosso: la nostra vita buona ci ha permesso di costruire il personaggio che pretendiamo esibire anche davanti a Dio.
Quella del fariseo è una storia imbarazzante. È un uomo per bene, le sue buone azioni sono reali, la sua generosità va al di là di quanto prescritto. Ma questa storia ci fa pensare. Fariseo come quello si diventa a poco a poco, e per di più frutto di una formazione impegnata e severa.
Frequentiamo tutte le domeniche la messa, facciamo i fioretti in quaresima, siamo attenti ai poveri, pronti nel volontariato, all’animazione in parrocchia… Una vita così fa crescere l’autostima e ci fa sentire protagonisti e mettiamo al centro della scena il nostro io. Questo atteggiamento, frutto avvelenato di una vita buona, si riflette anche nella preghiera che, come quella del fariseo, ha verbi con un unico soggetto: io. Il fariseo non ha nulla che attenda di fiorire, non vuole un Dio diverso da sé.
Sulla scena in primo piano ci siamo noi e gli altri stiano pure sullo sfondo, in seconda fila, perché noi giudichiamo che questo sia l’ordine di apparizione nei titoli del film. Noi siamo i protagonisti e gli altri solo comparse. Chi vive così non ha bisogno di salvezza, sono le sue opere a salvarlo. Succede così nella preghiera del fariseo che si illude di parlare con Dio ma parla invece con se stesso e di se stesso.
Ma sono fortunati i farisei di oggi se accadrà loro che qualche disavventura della vita li farà sentire fragili come in effetti sono e sentiranno il bisogno che qualcuno li consoli e li aiuti a recuperare il senso della vita che hanno smarrito, a ritrovare l’equilibrio anche davanti a se stessi.
Sarà l’occasione non per diventare “personaggi” ma per scoprire che Dio non chiede a nessuno di convincerlo delle nostre opere buone perché è un Padre che conosce la nostra fragilità anche quando noi non la ammettiamo ed è pronto ad accoglierci così come siamo, perché è un padre che ci vuole bene.
Dobbiamo disperarci perché è andata in frantumi la maschera del nostro personaggio? O gioire perché attraverso il dolore, e anche il peccato, sperimentiamo che c’è un amore più forte del nostro limite e della fragilità che ci permette di riconciliarci con la persona che siamo?
Non è la fine del personaggio ma l’inizio della vita di una persona vera e nuova. Possiamo anche permetterci di essere fragili perché non dobbiamo dimostrare nulla a Dio e possiamo continuare a fare il bene con cuore libero e semplice. E così, resi veri dalla rinnovata esperienza di Dio, possiamo anche guardare con benevolenza gli altri senza più la pretesa di essere migliori di loro.