Don Paolo Zamengo”La Trinità ci manda fuori dal chiuso del cuore”

Santissima Trinità (Anno B)  (26/05/2024)

Vangelo: Mt 28,16-20

Sento odore di chiuso in locali poco arieggiati; puzza di chiuso anche
in certi ragionamenti, spesso rivolti a difendere o a progettare
improponibili ritorni al passato; puzza di chiuso in certe comunità o
in gruppi protesi più a difendere i propri privilegi che a cogliere con
interesse gli stimoli che giungono dalla storia e dalle sue urgenze.
Il nostro tempo conserva una diffusa paura ad aprirsi, a confrontarsi, a dialogare con serietà, a mettere in
questione visioni del mondo e modelli di comportamento che hanno accompagnato, forse per troppo
tempo, anche l’esperienza storica della chiesa.
Mi viene da pensare che noi cristiani siamo incapaci di cogliere l’apertura e la larghezza della nostra
professione di fede. Il mistero della Trinità, ad esempio, la festa che celebriamo oggi, è già il superamento
del chiuso, del confine tra ciò che è di Dio e ciò che è dell’uomo, di ciò che è sacro e di ciò che è
profondamente umano. L’umanità che Dio ci ha donato come segno del suo amore.
Gesù fa saltare l’idea di Dio che abita nel suo segreto, che guarda da lontano gli uomini come un freddo
abitante di altri mondi a noi estranei e preclusi. Invece Gesù annuncia un Dio insofferente dei sacri recinti,
che ama costruire rapporti d’amore con i suoi figli. A Nicodemo, che lo cerca di notte, Gesù annuncia che
Dio ama il mondo tanto da non condannarlo e offre vita e salvezza, lui che non è mai solo padre, ma anche
madre e perpetuo e fedelissimo amico.
Nella Trinità si avvera l’aspirazione più profonda dell’amore, che è quella di diventare l’altro, pur
rimanendo se stessi. La Trinità è insieme l’amore che genera e l’amore generato. La Trinità è Dio verso di
noi, Dio vicino a noi, Dio in noi. Ricordo bene gli studi di teologia pur lontani nel tempo: Anselmo di Aosta
chiamava la Trinità oceano senza fondo e, anche, luce al di sopra di ogni luce, bellezza al di sopra di ogni
bellezza, saggezza al di sopra di ogni saggezza.
Tutto questo non può essere senza conseguenze. Non si può credere nella Trinità e poi vivere al chiuso dei
propri pensieri e del proprio cuore. Tre persone, uguali e distinte. Uguali a tal punto che il Padre non è più
grande neppure del Figlio, e lo Spirito santo non è inferiore né al Padre né al Figlio. Ma perché mai il Dio
eterno è venuto a raccontarsi nel tempo, se non per introdurre nella nostra storia umana l’esigenza della
pari dignità tra gli uomini, la parità della dignità che è il principio fondante di ogni vera comunione?
Che cosa ha spinto Gesù a rivelarci questo “segreto divino” se non il bisogno di costringerci al rifiuto di ogni
discriminazione di razza, di cultura, di ricchezza? E perché, dopo tanti secoli di cristianesimo, l’ingiustizia
imperversa ancora e il dominio dell’uomo sull’uomo umilia ancora una folla sterminata di poveri?
Ma perché sui banchi di teologia abbiamo consumato tanto tempo per studiare l’uguaglianza delle persone
divine, se poi non alziamo la voce per mettere in discussione questo perverso sistema economico che fa
morire di fame ogni anno milioni e milioni di fratelli? Solo perché sono poveri?
Che senso hanno i nostri segni di croce nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, se non ci
battiamo perché a tutti gli oppressi del mondo vengano riconosciuti i più elementari diritti? Quando
riusciremo a capire che le ingiustizie (anche le nostre) non sono solo la causa di tutte le guerre, ma sono
anche un’eresia trinitaria?
“Grazie, Signore, perché ai tuoi occhi nessuno è inquadrato da una divisa o appiattito da una casacca. Tu ci
chiami per nome e non per numero. Ci conosci in viso e non per un codice. E di nessuno di noi ti sei fatto il
doppione di riserva. E se la civiltà informatica tende a ridurci a un bit, tu continui a darci del «tu». E se le
mode pianificatrici di questa società indistinta ci imprigionano in un cliché, tu continui a suscitare in
ciascuno di noi la nostalgia del «totalmente altro» che sei Tu e che è sempre un po’ la nostalgia di noi
stessi. (Tonino Bello in Alla finestra della speranza, p. 93).